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L’Italia e le riforme: la lesson learnt spagnola ed il filo guida europeo che ci ricordano (Moody’s) di non perdere

Moodys In questi giorni si sente molto parlare della via virtuosa delle riforme che la Spagna è stata in grado di  perseguire. Il paragone rispetto all’Italia in modo non esplicito è stato portato anche da Draghi nel  suo ultimo  discorso (di seguito i passaggi principali ed un commento LINK) asserendo che gli Stati  che avevano fatto le  riforme sono in condizioni di crescita più solida e promettente. Effettivamente il  processo riformatore  spagnolo sta valendo allo stato iberico circa 20 pti di Spread in meno rispetto all’Italia. Sulla crescita del PIL  la Spagna ha una previsione per il 2014 del +1.2% dopo il +0.4% del  primo trimestre ed il +0.5% del secondo,  ma il Governo si è spinto a ritoccare ulteriormente il dato stimando un +1.5% per il 2014 ed un +2% per il  2015. Onori quindi all’impegno spagnolo nel portare avanti un piano di riforme, in particolare sul lavoro, in sintonia con quanto richiesto dall’Europa, ed onori alla determinazione della politica a raggiungere i risultati non impantanandosi in discussioni interne. Sulla Spagna, il cui PIL in valore assoluto si attesta a circa 1’015 miliardi di €, però non vanno dimenticati  il rapporto deficit/PIL per il 2013 a 6.62% ed un debito/PIL 2013 al 95% che ha visto una impennata dal 40% del 2008 fino alla percentuale attuale.

Oltre allo spread i benefici della politica attuata dal governo spagnolo sono da riscontrarsi in una maggior credibilità agli occhi europei, ma soprattutto ad una rinnovata capacità di attirare investimenti e capitali (incluso quello umano) anche dall’estero, fattore del quale l’Italia soffre tremendamente.

Attenzione però, non è tutto oro quello luccica perché ad oggi la situazione sociale spagnola non è così invidiabile, la disoccupazione è attorno al 25% (benché in luglio 2014 rispetto al luglio 2013 i disoccupati siano diminuiti del 5.94%) e le persone hanno subito decurtazioni o blocchi salariali, riduzione del potere d’acquisto, perdita del posto di lavoro, riduzione delle tutele sociali, con conseguente calo della qualità della vita.

Del resto la Spagna ha vissuto una crisi particolarmente pesante, iniziata con la bolla immobiliare speculativa che ha portato ad una cementificazione estrema soprattutto nelle aree costiere; dal 2007 la bolla è scoppiata ed i prezzi nel 2012 sono diminuiti mediamente tra il 30 ed il 35% rispetto al periodo pre-crisi, con una diminuzione del 13.7% rispetto al 2011. La svalutazione si è abbattuta sui maggiori detentori di immobili, ossia le banche che rappresentano la più importante agenzia di real estate spagnola, tanto che molte di esse sono state spinte a svenderle con sconti anche fino al 50%. A beneficiare di ciò non sono stati gli spagnoli, impossibilitati dalla crisi ad accollarsi spese anche se potenzialmente convenienti, ma principalmente norvegesi e russi. Vi è stata poi la necessità di intervenire sul settore bancario attraverso aiuti europei e di stato, i casi più clamorosi sono rappresentati da Bankia che ha ricevuto 36 miliardi di aiuti tra Madrid e Bruxelles (17.69 mld e da UE), NCG che ha ricevuto 10 mld (5.425 mld da UE), Catalunya Banc 14 mld (9.08 mld dalla UE), Banco di Valencia 7 mld (4.5 mld da UE); in totale Bruxelles ha fornito 37 milardi di € per ricapitalizzare gli istituti spagnoli. A valle della ricapitalizzazione è stato poi necessario che le banche tornassero ad essere istituti sani e sostenibili, cessando o riducendo drasticamente le attività di real estate ove avevano incagliati asset per miliardi di € in favore delle attività più rivolte al sostegno delle attività produttive e delle PMI. A tutto ciò va poi aggiunto l’intervento della Troika, FMI – BCE – Commissione, che ha indirizzato la politica economica della Spagna dirigendola verso pesantissimi sacrifici, dalla liberalizzazione forzata di alcuni servizi (che di per se non è necessariamente un male), all’aumento dell’IVA, al blocco o decurtazione dei salari pubblici, alla cancellazione dei debiti delle imprese rispetto allo stato centrale o agli enti locali, stremando ulteriormente lo stato sociale depauperato in modo marcato.

Evidentemente quindi, se non per le riforme che la Spagna sta portando avanti e che indubbiamente rappresentano progressi inderogabili per lo stato iberico, la sua situazione non è invidiabile, semmai si deve prendere spunto come da una “lesson learnt” per accelerare il piano di riforme prima di arrivare alle drammatiche conseguenze che hanno coinvolto la Spagna. L’italia potrebbe invidiare la politica industriale o la grande distribuzione e la filiera mondiale francese, l’export e la forza della Germania, ma non la condizione generale della Spagna.

Il nostro paese quindi, cosa ormai nota, per riconquistare credibilità istituzionale e degli gli investitori attirando nuovamente capitali verso la sua economia reale, dovrà necessariamente perseguire più che rapidamente le riforme ben notorie. Il premier Renzi proprio sulle riforme ha risposto più o meno indirettamente a Draghi rilasciando una intervista al Financial Time nel quale spiega che verranno fatte, ma in autonomia; sarà lui stesso a decidere, senza che Europa, Troika o BCE (che poi sono due delle facce di una medaglia a tre superfici talvolta in disaccordo tra loro; FMI-BCE) indichino come implementarle. La battuta fa riferimento non troppo velato alla richiesta del Goveratore della BCE di cedere parte della sovranità nazionale all’Europa in tema di riforme strutturali. A leggere le parole del Premier egli non ha detto nulla di esotico, forse ha calcato la mano usando toni troppo coloriti riferendosi a certi ambienti ed a certi interlocutori, che come Draghi non sono proprio degli sconosciuti o privi di autorevolezza internazionale e degli ambienti di comando.

Renzi ha solamente ribadito che i dettagli tecnici del piano di riforme verranno decisi internamente. Dal mio punto di vista quello che però vale la pena ricordare è che le linee guida sul tipo di riforme da implementare (non sui modi o sulle “technicalities”) sono fornite dall’Europa e sono da assecondate, proprio come ha fatto la Spagna ottenendone benefici in termini di credibilità. Se l’Europa propone, peraltro più che sensatamente, di spostare la tassazione dal lavoro e dalle persone ai patrimoni è corretto perseguire questo fine adattando la richiesta per i dettagli implementativi al contesto italiano, analogamente dicasi per la riduzione del debito, per le privatizzazioni, per l’abbassamento della pressione fiscale e per la spending review.

Ora come ora è inutile e controproducente lanciarsi in dibattiti e muro contro muro che ci vedrebbero penalizzati non avendo dimostrato ancora nulla e stringendo il coltello del fiscal compact, che sarà fondamentale modificare, dalla parte della lama, ancora di più considerando che siamo nel nostro semestre di presidenza europeo e sapendo che le stime di crescita 2014 sono state portate da Moody’s (non un gufo o un rosicone, ma un market maker) a -0.1% dal precedente +0.5% con un rapporto deficit/PIL a 2.7% per il biennio 2014/15 rispetto ai +2.6% e 1.8% precedenti. Del resto era stato lo stesso Renzi a rettificare il parametro a valle della comunicazione ISTAT di un PIL per il secondo trimestre di -0.2%, dicendo che si sarebbe attestato a 2.9% (precedente stima 2.6%) rimanendo dunque sotto il fatidico 3%. Lo 0.3% di differenza però, allo stato attuale dei patti e delle regole di flessibilità vigenti a Bruxelles, in termini assoluti vale circa 5 miliardi di € da sottrarre a possibili investimenti o impieghi che, mai come ora avrebbero fatto comodo (il giudizio di Moody’s non tranquillizza, anche se l’ OSCE è più ottimista e delinea per l’Italia una moderata tendenza alla crescita, c’è da rifinanziare il bonus IRPEF renderlo strutturale ad esempio e pare che sia in procinto di essere avviato il piano di taglio alle detrazioni fiscali ed una ulteriore spinta sulle riduzioni delle spese).

In uno scenario simile andare contro eventuali raccomandazioni europee non è consigliato, anche perché gli investitori sono sempre più freddi nei nostri confronti dopo una fase iniziale di potente luna di miele. Di questa virata causata dalla lentezza delle riforme e del cambiamento ne sono testimonianza gli indici borsistici, ma non è solo la finanza che dovremmo attrarre, e principalmente l’investimento concreto nell’industria e nella produzione ad oggi latitante.

Abbiamo più volte detto che i mercati e gli investitori sono estremamente pragmatici e cinici (LINK1 LINK2 – LINK3), ma del resto è il loro mondo che lo richiede e la regolamentazione vigente che lo permette, come lo è la stampa: tanto facilmente si innamorano e pare conferire totale appoggio e fiducia quanto rapidamente voltano le spalle spesso lanciando frecciate, pesanti critiche ed accuse. In momenti simili, complici anche le aspettative decisamente altissime, sia i cittadini, sempre più invischiati nei problemi del quotidiano non ancora ai livelli spagnoli, ma a quelli tendenti, sia la stampa (anche se in tal caso ci sarebbe da fare una considerazione differente relativa al rapporto media-potere che lascio ad altrui elucubrazioni) sia i mercati e gli investitori vogliono risultati immediati, risultati che evidentemente non hanno ritenuto sufficienti a questo punto dell’azione di Governo (LINK). A poter giustificare la difficoltà non prevista ci sono sicuramente le vicende estere, la stretta più poderosa della crisi, ma esistono le controprove di Spagna, USA ed UK, ed in ogni caso il giudizio di Moody’s, che pone anche il 2014 in recessione e segue il dato ISTAT di -0.2% per il Q2 2014, è motivato dalla lentezza delle riforme soprattutto economiche (lavoro, fisco, spending review ecc), della burocrazia e della giustizia nonché dalla tendenza atavica di agire riparando situazioni invece che creando presupposti strutturali virtuosi, insomma risultati sotto le aspettative che a detta della più antica delle tre sorelle del rating comporterà la necessità di revisione delle entrati fiscali (e pare che un processo sia già in atto) e potrebbe portare a tensioni interne ed esterne, in particolare con la Germania ed in generale con l’Europa il cui processo di rinnovo della Commissione è anch’esso lento e farraginoso e che ancora, nonostante i discorsi ed i propositi pre-elezioni, non ha dimostrato fattivamente la volontà di mutare approccio da austerità a più cooperazione e condivisione di rischi e benefici. Le nuove metodologie di governance economica, comportando un minore ricorso al rigore dei conti ed all’austerità (solo) nei momenti pesantemente recessivi avrebbero potuto evitare situazioni fallimentari protratte per mesi e mesi che hanno richiesto nel tempo un pesante contributo economico; maggiore di quanto sarebbe stato necessario per un salvataggio immediato, ed è il caso della Grecia, di Cipro e forse anche della Spagna che avrebbe potuto evitare la deriva della situazione sociale. La giustificazione secondo la quale questo approccio dovrebbe rappresentare una lezione ed un monito a non ripetersi è vera parzialmente perché gran parte delle conseguenze sono state a carico non “dell’establishment” colpevole, ma della popolazione.

Che la Spagna ci sia di esempio non tanto come situazione generale, ma esclusivamente per quel che concerne la gestione delle riforme. Dobbiamo saper essere più rapidi, scavalcare le discordie, i pregiudizi ed i particolarismi interni per focalizzarci verso l’obiettivo comune senza disperdere energie in argomenti importanti, ma non prioritari in questa fase delicata. Servono piani di riforme concreti che seguano le linee guida europee, ma rispecchino la particolarità dello scenario italiano per la loro applicazione e con la auto-richiesta da parte delle nostre istituzioni di maggior controllo europeo, che certifichi la nostra ritrovata capacità e volontà di riformare, dobbiamo metterci in gioco agli occhi di Bruxelles dimostrandoaffidabilità e rinnovata serietà cosicché da parte loro non vi siano più tabù nel concederci credito e margini più ampli (come è stato fatto per Germania e francia).

Questo è quanto, difficile considerando le nostre inclinazioni, i nostri precedenti storici, alcuni parametri di bilancio (leggi debito); tutto il resto, consapevoli che i creditori di fiducia sono venuti a batter cassa esigendo subitamente gli interessi, dovrebbe passare secondo piano.

11/08/2014
Valentino Angeletti
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