Alla conferenza sul clima di Varsavia negoziati dominati dai particolarismi
La conferenza delle Nazioni Unite sul clima è iniziata a Varsavia due settimana fa ed avrebbe dovuto concludersi, dopo quattordici giorni di trattative, la sera di venerdì 22 novembre. I lavori invece sono ancora in corso e gli accordi ben lungi dall’essere consolidati, come avviene costantemente in queste occasioni.
Gli obiettivi che si vorrebbero raggiungere prima del prossimo appuntamento a Parigi nel 2015 sono quelli di definire piani ben precisi per la riduzione delle emissioni di CO2 contenendo entro i 2° il riscaldamento globale di qui a fine secolo, che così stati le cose è previsto essere tra 4° e 5° a seconda delle fonti. Troppo per la comunità scientifica che pone nei 2° il limite di sostenibilità del nostro pianeta. La correlazione tra cambiamento climatico, surriscaldamento della terra, uomo ed emissioni inquinanti di gas serra è stata sancita dall’ IPCC che nel suo report afferma:
• Il 95% dei cambiamenti climatici sono dovuti all’uomo.
• Le emissioni di CO2 tra il 1990 ed il 2012 sono aumentate del 32%.
• La temperatura media è aumentata di 0.89 °C dal 1750.
• Se non verrà cambiata rotta la temperatura media del globo aumenterà di 5 °C entro la fine del secolo.
• A seconda degli scenari al contorno il livello degli oceani potrebbe innalzarsi entro il 2100 tra i 18 ed i 59 cm.
A Parigi si vorrebbe dunque giungere già con piani ed un accordi condivisi affinché la ratifica per renderli obbligatori possa avvenire in modo semplice e rapido.
Nella capitale polacca le linee di pensiero sono due, da una parte gli USA e l’ Europa che vorrebbero politiche più dure e proporre limiti stringenti alle emissioni di CO2 fin da subito, l’Unione ha affermato che presenterà già il prossimo anno il proprio piano di riduzione delle emissioni. Dall’altra vi sono i paesi in via di sviluppo o comunque, come nel caso di India e Cina energivori, perché uno sviluppo consolidato lo hanno già raggiunto da tempo. In particolare gli oppositori sono Cina, India, Arabia Saudita, Venezuela e Bolivia. Questi paesi non sono d’accordo sulla proposta dei paesi sviluppati di redigere un documento comune e valido per tutti. Dal loro punto di vista non ritengono giusto che gli stati ora già sviluppati, come Europa e USA abbiano avuto il “vantaggio” di poter crescere e basare la propria economia, industria ed energia sulle fonti fossili, senza curarsi delle emissioni che ora vorrebbero limitare, ostacolando di fatto la crescita economica di nuovi giganti attualmente trainati principalmente da carbone e petrolio.
I paesi “emergenti” (che dal mio punto di vista sono già emersi e sono ormai solide realtà industriali che da tempo influenzano l’economia mondiale) non vorrebbero essere trattati alla stregua delle economie sviluppate e vorrebbero una doppia linea nei trattati: degli impegni veri e propri per USA, EU, ecc., ed azioni dall’accezione più facoltativa per Cina, India, Arabia, Bolivia, Venezuela, ecc. attendendo Parigi per la definizione di strategie definitive.
Dure sono state le reazioni degli esponenti della Commissione Europea, Connie Hedegaard, e degli Stati Uniti, Todd Stern che hanno giudicato siffatte richieste inaccettabili, come inaccettabile è, secondo il delegato cinese, Liu Zhenmin equiparare le attuali emissioni cinesi a quelle di altri stati che hanno potuto godere di un vantaggio competitivo dovuto alla minore attenzione all’ambiente degli anni passati.
Le trattative proseguiranno per altre ore, ma è assai difficile che si giungerà ad un accordo, vista la natura assolutamente non win-win della negoziazione; più probabile sarà un rinvio.
Va detto che, nonostante l’impronta verde che da sempre Obama ha dato al suo mandato facendo dell’ efficienza energetica, delle rinnovabili, della produzione energetica da carbone “pulito” attraverso tecnologie come la CCS (Carbon Capture and Storage) dei veri capisaldi, la reale svolta alla sostenibilità ambientale a stelle e strisce è arrivata dopo che la rivoluzione dello Shale-Gas ha garantito la sostanziale autosufficienza energetica, consentendo loro di diventare esportatori e necessitare di sempre meno petrolio e soprattutto carbone, i veri responsabili delle emissioni di CO2. Al contrario l’uso di shale-gas per la produzione di energia risulta essere meno impattante a livello ambientale (differente è il discorso per l’estrazione di questo tipo di gas, inoltre la presenza di condotte per il petrolio non più utilizzate ha reso le operazioni meno costose), ciò ha indubbiamente contribuito a rendere gli USA più determinati nel sostenere gli accordi climatici di quanto non lo siano stati in passato, basti pensare a Kyoto e Doha.
In parole molto semplici è triste avere una prova ulteriore di come l’economia del profitto e della crescita ad ogni costo, senza tener in considerazione alcun tipo di sostenibilità né sociale, né ambientale, alle quali tutte i Governi e le multinazionali mondiali sono tenuti a prestare attenzione, venga sempre più spesso messa dinnanzi ad un bene più importante, ampio e diffuso: la terra.
Il ragionamento cinese e dei suoi alleati in questa battaglia climatica, tremendamente pericolosa e dagli effetti tangibili, è dettato dal protezionismo dei propri interessi particolari e da una sorta di cecità nei confronti dell’interconnessione che lega l’intero pianeta e che è stata alla base di quel processo di globalizzazione del quale Cina, India e paesi in via di sviluppo hanno potuto godere più di ogni altro, forse anche più di quanto le vecchie economia abbaino fatto con l’assenza di controllo sull’inquinamento del passato. Il pareggio competitivo potrebbe quindi essere già stato raggiunto: possibilità di inquinare per i paesi già sviluppati, globalizzazione favorevole ed abbattimento delle frontiere commerciali per in paesi in via di sviluppo.
La tendenza alla protezione della propria economia, dei propri interessi particolari sono del resto uno dei motivi che hanno contribuito alle difficoltà europee e, a livello nazionale, della lentezza e dei continui blocchi nell’attività del Governo italiano che stanno snervando gli elettori e rischiando di rovinare irreparabilmente il paese.
Il futuro, il cambiamento e la discontinuità da tutti richiesti e che in ultima summa sono bandiera di ogni proposta politico-economia, non possono, nell’attuale società globale ed interconnessa, prescindere dalla capacità di fare rete e di interpretare con lungimiranza e vision gli scenari non solo locali e particolari, ma mondiali ed interessanti per una platea di stakeholders che, nel caso del clima, si può senza timor di smentita, rappresentare come il pianeta intero.
Il non comprendere o far finta di non comprendere questa interdipendenza può, in ogni situazione che si vuol considerare, clima in primis, causare il superamento del break-point oltre il quale non è più possibile rimediare i misfatto.
Nota: apertura lavori conferenza ONU: link.
24/11/2013
Valentino Angeletti
LinkedIn, Facebook: Valentino Angeletti
Twitter: @Angeletti_Vale
Economie in via di sviluppo: i nuovi mercati emergenti
Lo scenario economico mondiale sta mutando, ormai è ben noto. La centralità economica è passata dall’Europa agli USA ed ora si sta rapidamente dirigendo verso l’estremo oriente, con China ed India che fanno da traino più consistente. In ottica futura però, quali sono le parti del globo che una Multinazionale intenzionata ad investire ed ampliare il proprio business dovrebbe monitorare? La Figura 1 può dare una idea.
Immediatamente si nota come ad avere crescita negativa, oltre all’Iraq, siano solamente alcuni stati del vecchio continente, tra cui Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia.
Il tasso di crescita della Cina rimane ben oltre il 6% nonostante abbia subito una battuta d’arresto dovuta in parte alla crisi globale che ha colpito le sue esportazioni.
Il Sud America cresce a ritmi costanti, ma anche in tal caso si è verificato un rallentamento nel tasso di crescita del Brasile il quale, benché andrà ad ospitare importanti eventi (Olimpiadi e Mondiali di calcio) che fanno da traino alla crescite economica ed agli investimenti, sta vivendo momenti di tensione interna politica e sociale non trascurabile.
Il dato più importante però riguarda l’ Africa (cartina politica in Figura 2). I tassi di crescita di alcuni stati del “Continente Nero” sono ragguardevoli (gli stati a maggior tasso di crescita sono rappresentati in Figura 3). Vero è che il tasso di crescita non può prescindere dal valore assoluto del GDP che per alcuni stati africani è talmente basso che sono sufficienti relativamente pochi investimenti per fa impennare il tasso di crescita. In ogni caso è significativo ad indicare quali, con buone probabilità, saranno in un futuro non troppo lontano le economie emergenti. L’Africa complessivamente, secondo l’IMF, crescerà costantemente di qui al 2025 di poco più del 4% all’anno ed è il continente che nel medio – lungo periodo ha tassi di crescita più elevati seconda solo ad alcune economia asiatiche in via di sviluppo. Gli stati che già ora crescono a ritmi oltre il 6% supereranno abbondantemente il 4% medio dell’intero continente. L’Africa è certamente ricca di insidie e contraddizioni tra le quali l’enorme disuguaglianza, la classe dirigente corrotta e militarizzata, l’insicurezza e l’assenza di rispetto dei diritti umani, l’instabilità politica e la guerriglia, in alcuni casi la fame, la siccità e l’assenza di infrastrutture ed elettrificazione, ma è ricca di risorse naturali e minerarie ed il fenomeno del “Land Grabbing” ,del quale la Cina è la massima esponente, testimonia le potenzialità africane.
In un momento come quello attuale il portfolio investimenti di qualsiasi grande azienda deve essere diversificato sia per produzione, anche rimanendo nello stesso settore merceologico (tecnologie produttive e bacini di utenti differenti ecc), sia geograficamente. Sempre più difficoltà avranno le compagnie che punteranno a mercati limitati o solamente interni. Per l’Europa in particolar modo l’export dovrà essere dominante.
Una Multinazionale, una tra le poche, che avesse possibilità di investire nei periodi di difficoltà, oltre a consolidare ed incrementare la presenza nelle economie ex emergenti ed ora a pieno titolo realtà come la Cina ed Emirati e in misura minore il India o Sud America, guardando principalmente al futuro non dovrebbe mancare di essere presente, inizialmente anche solo come presidio in modo da individuare tempestivamente opportunità di business, nella zona africana ed in particolare in quegli stati che stanno già crescendo a ritmi “cinesi”.
In Nigeria ad esempio, oltre alle compagnie petrolifere, sono già presenti numerose imprese edili europee ed italiane. Il settore edile è quello che funge da precursore allo sviluppo andando a creare le infrastrutture necessarie ad ogni attività, immediatamente dopo vengono il settore dei trasporti e quello energetico, elettrico in particolar modo.
Proprio per il continente africano l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha in programma importanti piani di investimento e sviluppo in collaborazione con Governi ed aziende private. Il fine dell’ONU è quello etico e morale di arginare la povertà in quelle zone, come il sub sahariano Sahel, che rimangono in assoluto tra le più povere della terra. Le priorità individuate dall’ONU e dal suo rappresentante Romano Prodi sono la lotta a guerre e guerriglie, alla fame ed alla siccità, la costruzione di infrastrutture e vie di comunicazione e l’accesso all’energia. Tutto ciò con lo scopo di creare micro e piccole economie anche di dimensioni domestiche. Questi propositi, in particolar modo quello dell’accesso alla risorsa elettrica con il programma “Energy for all” è totalmente condiviso ed indicato come prioritario anche dalla World Bank.
Altamente probabile che dopo gli anni asiatici assisteremo ad anni in cui una protagonista sarà l’Africa e chi avrà anticipato il trend, valutandone correttamente rischi ed opportunità, ne saprà sicuramente trarre vantaggio.
21/07/2013
Valentino Angeletti
LinkedIn: Valentino Angeletti
Twitter: @Angeletti_Vale
Commenti recenti