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Elezioni 2018, tracollo del PD: esiste un perché?

Conclusasi la fase di voto, spoglio ed elaborazione dei risultati, non possiamo dire archiviato, anzi, durerà a lungo, il periodo “elettorale”, intendendolo, ad ampio spettro, come transizione verso un nuovo Governo.
Sicuramente uno dei risultati che più hanno segnato lo spoglio e le susseguenti analisi, è stato il tracollo del PD, benché complessivamente sia ripartizione che entità delle percentuali non fossero così difficili da pronosticare.
La chiave di lettura di un tale epilogo è, a mio avviso, legata all’anima che ha dominato il PD in questi ultimi anni, ossia il Segretario Matteo Renzi. Il leader democratico si è sempre posto in modo molto netto in una posizione in cui o si era con lui e contro, o lo si ama o lo si odia, di tale atteggiamento non ha neppure fatto troppo segreto.
Inizialmente, ricordiamo le europee di qualche anno fa, fu premiato da un 40% perché il suo parlare, anche in modo violento con il conio del neologismo “rottamazione”, di rinnovamento della classe politica ed assoluta necessità di una nuova classe dirigente e di leader, aveva fatto breccia nel cuore degli elettori, sia del PD che dei più orientati a destra. Va oggettivamente ammesso che non si poteva dare assolutamente torto a quel proposito, in un paese in cui l’età media della politica era (e rimane) la più alta tra i paesi UE.
In seguito, il suo atteggiamento ha portato a numerose fratture all’interno del partito con la sinistra più radicale e con i sindacati, citiamo a titolo esplicativo il JOBS ACT e l’abolizione dell’articolo 18, che lo hanno accusato di portare avanti un programma politico troppo lontano dagli ideali fondanti il PD e vicino ai poteri cosiddetti di sistema.
Nell’ultimo periodo, ed i risultati referendari ne sono stati prova eclatante, la sua impostazione ha cominciato a non pagare più. Matteo non ha compreso questo nuovo vento di malcontento ed ha insistito, amplificandolo addirittura, il suo posizionamento come persona che o si odia o si ama, portando alla creazione dei LEU, l’ala più radicale dei fuoriusciti dal PD.
Il 19% e spiccioli racimolato dal PD di Renzi, sono la prova evidente che l’elettorato ha deciso di odiarlo, e con lui ha deciso di odiare tutto il centro sinistra a cui si può senza dubbio imputare di non essere stato coeso tanto quanto un centro destra sempre duro a morire. Tanti voti dal PD, assieme ai molti che nelle precedenti elezioni si erano astenuti, sono andati al M5S ed alla Lega, i veri vincitori nonostante il buon lavoro del Premier Gentiloni che ha pagato lo scotto di avere Renzi, il segretario, alle spalle, mossi dal medesimo sentimento che aveva mosso i votanti di Renzi della prima ora: la voglia di rinnovamento, discontinuità ed in parte opposizione rispetto al sistema.
Adesso attendiamo di vedere che alleanza si configurerà, i sostenitori del M5S si attendono cambi epocali, reddito di cittadinanza ed abolizione/modifica della Legge Fornero, e come deciderà di muoversi il Presidente Mattarella, che di certo, da veterano della politica, non avrà certo non previsto lo scenario in essere.

06/03/2018
Valentino Angeletti
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D’Alema e l’ormai incolmabile divergenza del PD

Sono giunte come un colpo di sciabola e come tale hanno un peso notevole, non tanto per il messaggio che trasmettono, il quale non è nuovo dall’essere proferito, quanto per lo spessore di colui che le ha emesse. Il riferimento è, ancora una volta, alle forze disgregatrici che ormai risiedono, come inquilini stabili, all’interno del PD e che in questa circostanza sono state esplicitate niente poco di meno che da Massimo D’Alema, di ritorno da un viaggio in medio oriente.

In estrema sintesi D’Alema ha affermato perentoriamente che Renzi, la sua entourage ed il modello che ha adottato per la gestione del PD, lo sta “distruggendo”  e rendendo estraneo rispetto a quelli che erano gli ideali dei fondatori; ormai il partito della nazione, almeno dal Nazareno in poi, è cosa fatta ed assodata, grazie, indubbiamente, al supporto di Verdini. Secondo D’Alema, questo agire non può essere accettato dalla vecchia guardia del PD, dicendo ciò cita esplicitamente il professor Romano Prodi. Nell’idea di D’Alema esiste un notevole spazio a sinistra del PD, rappresentato dal vecchio elettorato storico, che è il momento di colmare, ed al “Leader Massimo” fa eco, a distanza di poche ore, l’ex segretario generale CGICL, Cofferati, dichiarando che è il momento di creare un partito vero e proprio che ritrovi le origini e persegua i primordiali ideali del Partito Democratico. Prende invece le distanze dalla copia di “dissidenti” Pierluigi Bersani, che smentisce ogni ipotesi di divicreato benché sostenga che Renzi ha perso la misura e che deve nutrire rispetto per quelli che il PD lo hanno creato.

Ovviamente la risposta di Renzi non ha tardato ad arrivare, ed è stata, come da par suo, tosta, respingendo al mittente le accuse di aver distrutto il PD. Il declino del partito, per il Premier, sarebbe iniziato quando la vecchia dirigenza avrebbe consegnato l’Italia nelle mani di Berlusconi.

Quanto detto da D’Alema non è nuovo, ci avevano provato Speranza, D’Attorre, Cofferati, Fassina, Civati, ma, complice anche la loro totale divisione e divergenza di vedute sul se e come creare una nuova entità politica di sinistra una volta fuori dal partito, l’esperienza, che pure continua, pare non esser altro che l’ennesimo fallimento. Adesso però a parlare è una delle voci più autorevoli del centro sinistra, una figura che, con le sue passate politiche all’insegna del liberismo, le sue azioni in politica estera, la sua apertura al dialogo con altre fazioni, non può certo dirsi estremista, anzi tutt’altro: ciò senza dubbio è un elemento da valutarsi con attenzione e non privo di significati, tra i quali, il più lampante, è che la “misura” tra vecchia e nuova dirigenza, è ormai colma e la faglia non più saldabile, con buona pace dei Bersani e Cuperlo di turno.

Probabilmente lo spazio a sinistra del PD teoricamente esiste, lo dimostrano le interviste nelle periferie romane durante le primarie, tutti, dei pochi votanti, a sostegno di Morassut, ma allo stato attuale questo spazio è difficilmente colmabile da una nuova formazione sinistrorsa, che tra l’altro si affiancherebbe a SEL. Questa frangia di delusi dai democratici si è ormai schierata tra le file degli astensionisti oppure dei sostenitori del M5S, talvolta per condivisione dei programmi, propositi di etica e morale (spesso con le vicende dei candidati con pendenze legali  disdetti dal recente PD), talvolta identificando il movimento come minore dei mali e colui che mai è stato messo realmente alla prova e per tanto vergine dal peccato originale. D’Alema, con le mosse che ora dovranno necessariamente seguire le sue forti dichiarazioni, deve stare attento, perché potrebbe rischiare di indebolire il PD di Renzi quel tanto che basta per consegnare, ad esempio Roma, nelle mani di un centro destra estremamente disorganizzato e con Berlusconi che ha voltato le spalle a Salvini e Meloni, o, cosa più probabile, al M5S, nonostante le ragioni di Massimo D’Alema siano più che comprensibili.

Vedremo a breve cosa accadrà e dovremo stare attenti a come verrà affrontato il referendum sulle riforme costituzionali, che potrebbe essere realmente, ancora più che le elezioni romane, un viatico cruciale per l’esecutivo, nel quale viene testata la fiducia che a livello nazionale è riposta nel Governo e soprattutto nel suo operato.

Quello che al momento è certo, è che il centro sinistra, per come storicamente lo conosciamo, non esiste più, da tempo, e finalmente lo hanno realizzato anche i vecchi dirigenti.  Sarà interessante seguire come verrà gestito e che conseguenze avrà questo sempre più evidente bivio. Il pronostico più facile è che se una scissione si verificherà, allora Renzi, per poter avere numeri adeguati, non potrà far altro che avvicinarsi sempre più a Verdini ed al suo elettorato democristiano e di centro destra andando, grazie alla sinistra fuoriuscita, a realizzare sempre più compiutamente quel partito della nazione così poco sopportato da D’Alema.

12/03/2016
Valentino Angeletti
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Fiducia: la legittimazione che mancava a Renzi

FiduciaLa vicenda della riforma della legge elettorale “Italicum” sta giungendo ad un epilogo fondamentale, infatti, prima dell’approvazione definitiva con voto a scrutinio segreto sull’intero corpo della legge in programma martedì 5 maggio, si terrà nel pomeriggio di giovedì 30 maggio l’ultimo due voto di fiducia sull’articolo 4, dopo che gli articoli 1 e 2, votati mercoledì 29 e nella mattinata di giovedì 30, hanno passato la flebile forca caudina rappresentata dalla votazione di fiducia a scrutinio palese.

L’esito delle prime votazioni è stata una debacle impietosa per gli oppositori del Governo e soprattutto per la minoranza del PD, un marcia trionfale per l’Esecutivo ed in particolare per la persona di Matteo Renzi. I numeri sono abbondantemente dalla parte del Preimer: 352 voti favorevoli (350 per l’articolo 2), 1 astenuto, 207 contrari (193 per l’articolo 2). All’interno del PD  sono stati 38, i vecchi e meno vecchi big del partito tra cui Bersani, Bindi, Cuperlo, Fassina, Civati, Letta, D’Attorre, Epifani, Speranza, a non partecipare al voto (che gli è valsa l’accusa di ignavia da parte di esponenti M5S) non appoggiando di fatto la fiducia, mentre 50 elementi afferenti all’area riformista del PD si sono allineati al partito, come spesso accaduto in passato, votando favorevolmente.

L’ipotesi paventata da Renzi già qualche settimana fa di porre il voto di fiducia sulla legge elettorale è stata fin da subito motivo di tensioni politiche, e perché il tema della legge elettorale è di dominio parlamentare e non di Governo, e perché gli unici due precedenti, oggettivamente ed innegabilmente poco edificanti, risalgono all’epoca del fascismo, legge Acerbo, ed alla legge truffa. A valle poi del voto sulle pregiudiziali di costituzionalità, bocciate con un margine ampio di circa 150, in favore dunque della legge proposta dal Governo, sembrava ai detrattori ancor meno necessario il ricorso al voto di fiducia, essendo i numeri abbondantemente in favore dell’Esecutivo. La decisione comunicata dal Ministro Maria Elena Boschi proprio pochi istanti dopo il voto sulle pregiudiziali di ricorrere alla fiducia ha acuito ulteriormente le tensioni ed inasprito, come ormai tristemente frequente, i toni del dibattito parlamentare.

L’accusa mossa al Premier per la sua scelta da opposizioni e minoranza Dem è quella di una prova di forza non necessaria, di una azione con soli due precedenti infausti, di un eccesso di decisionismo ed autoritarismo che ricorda epoche fosche, di una volontà di sminuire il lavoro parlamentare, le opposizioni, il solito pacato Brunetta ha asserito che sarebbe volontà renziana ridurre il Parlamento in un bivacco di manipoli e dichiarazioni sulla stessa lunghezza d’onda sono state fatte da esponenti del M5S e PD, ed annichilire, annientare ed asfaltare la Minoranza Dem, avendo, con il voto palese, la possibilità di enumerare ed identificare chiaramente chi siano i dissidenti.

Lato Renzi invece la questione di fiducia non sarebbe altro che, ed in tal modo è stata presentata ai media, alla comunicazione, al web in una campagna comunicativa molto attenta e puntuale, una (ennesima) opportunità democratica che il suo Governo da alle opposizioni ed a tutti coloro che gradirebbero mandarlo a casa. Lui invece vorrebbe, come non è stato fatto nel recente passato, “cambiare il paese” a suo modo e rapidamente: a tal pro ha impostato una direzione precisa. Effettivamente a livello prettamente teorico il ragionamento del Premier sta in piedi. Il suo Esecutivo ha redatto una riforma elettorale ed ora conferisce, con uno strumento criticabile, ma costituzionalmente ammesso, la possibilità a tutti coloro che hanno mosso pesanti critiche di votare in favore o meno del suo operato, di bloccare la riforma e mandarlo a casa anche (volendo) unendo le forze in “strampalate” alleanze. Proprio la tenuta del Governo è stata legata da Renzi alla fiducia e, sempre teoricamente, potrebbe rappresentare l’occasione per tutti coloro che almeno a parole gradirebbero assai questa ipotesi.

Innanzi tutto va però ricordato come ben meno democratica è apparsa la mossa del segretario PD di “epurare”, sostituendoli temporaneamente, la Commissione Affari Costituzionali dai 10 membri PD non sostenitori dell’impianto della riforma con esponenti amici. Tale gesto, di quelli che i cittadini apprendono di sfuggita e dimenticano nel giro di qualche decina di minuto presi come sono dai problemi del quotidiano, è parso decisamente autoritario e poco consono ad un aulico ed alto concetto democratico.

Se un obiettivo Renziano era contare ed asfaltare la minoranza Dem, esso è sicuramente riuscito, del resto visti i precedenti, la forza e la determinazione di questa compagine è stato un po’ come sparare su una “croce rossa” neppure a pieno organico. Il riallineamento dei 50 elementi di area riformista ha sancito una spaccatura dei dissidenti riducendola davvero al lumicino. Anche la dichiarazione di Bersani di non voler uscire comunque dal partito fa intendere che continuerà a “baccagliare” di una ditta ormai divenuta multinazionale che fa finanza e taglia rami aziendali, dall’interno del PD, mantenendo il ruolo di uno dei tanti “pungiball” su cui Matteo Renzi all’occorrenza scarica le sue tensioni.

Oltre alla motivazione precedente però, leggo nel ricorso ad una fiducia scontata un’altra volontà: quella della legittimazione del suo Esecutivo e del suo Premierato che spesso è accusato, infondatamente, di essere illegittimo e di non derivare da elezioni popolari. Il successo della fiducia era fin da subito scontato, o si sarebbe verificato un allineamento col Governo, oppure il Governo sarebbe caduto; questa ultima opzione risultava di fatto inesistente perché a nessun politico piace lasciare la propria posizione e poltrona, ed in caso di sfiducia, caduta dell’esecutivo e nuove elezioni, a meno di un intervento, improbabile per come ha impostato il suo mandato, del Presidente Mattarella, l’unico vincitore sarebbe stato ancora lo stesso Renzi (con qualche voto in meno ed un M5S in leggera salita), ulteriormente potenziato dalla possibilità di eliminare ogni dissidente e creare un Governo completamente suo: questa ipotesi non piace di certo agli avversari del fiorentino, tanto più se essi si trovano in posizioni di comando o di governo.

Il ragionamento del Premier è quindi efficace e banale: porre la fiducia. Se non piacciono l’operato e le modalità di comando e governo proposte, e che continueranno ad essere tali, c’è la concreta possibilità di far finire governo e legislatura e giocarsi nuovamente tutto alle urne. Se però viene votata la fiducia vuol dire che l’esecutivo ed il parlamento condividono la gestione del potere, il decisionismo, l’esercitazione del comando, la volontà di fare certe riforme rapidamente e subito, senza discutere, tergiversare e senza troppi confronti. La fiducia dunque è motivo per richiedere e pretendere appoggio e per, finalmente, avanzare una forma di legittimazione.

Lo strumento è potente soprattutto a livello comunicativo e si ritiene, a prescindere dalla vittoria scontata fin da subito, che sia la vera arma n grado di conferire a Renzi altri forti “attrezzi” comunicativi con cui giustificare il suo operato e screditare ogni tipologia di avversario.

30/04/2015
Valentino Angeletti
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Situazione politica tesa e contesto sempre più difficile suscitano critiche ed ipotesi di scenari quasi da complotto

Ogni giorno che passa si diviene sempre più consci e consapevoli di quanto, nonostante i proclami dei nostri leader di governo, la situazione italiana sia sempre più complessa e lontana dall’essere sulla via di un concreto, tangibile e duraturo miglioramento.

Il lavoro, pur tra le dichiarazioni ottimistiche troppo affrettate (come giustamente rimarcato da Poletti), non è ancora ripartito e ne sono una testimonianza reale, ben più oggettiva dei presunti 90’000 nuovi contratti a tempo indeterminato che probabilmente sono in maggior parte trasformazioni di vecchi rapporti precari ed instabili, le vertenze Wirphool-Indesit (nonostante gli accordi presi col Governo in sede di cessione della Ex Merloni), Auchan, che in Sicilia denuncia concorrenza sleale da parte di supermercati locali che praticherebbero contratti a tempo pieno trattandoli come se fossero part-time e risparmiando di conseguenza sui costi -se così fosse si tratterebbe di un caso palese di sfruttamento- , e Mercatone Uno, storico marchio sponsor del grande Pantani dei tempi d’oro, che ha portato i libri contabili presso gli uffici di Bologna per avviare le pratiche di fallimento. In tutto ciò ballano migliaia di posti di lavoro e queste vertenze, visto che il bianco e la grande distribuzione sono settori di consumo, testimoniano il proseguire della stagnazione, a prescindere dagli alti e bassi fisiologici dei dati mensili, bimestrali o trimestrali. Ci si deve augurare che il MISE ed i Ministri Guidi e Poletti assieme ai Sindacati lavorino alacremente per proteggere l’occupazione, in cui non ci si possono permettere ulteriori defezioni conferendo il sostentamento degli esuberi ad ammortizzatori sociali che richiederebbero risorse pubbliche scarseggianti, e contemporaneamente si concentrino per modificare un mondo del lavoro decisamente troppo obsoleto.

Anche la riforma della scuola lascia perplessi. Le proteste vengono da tutti i fronti, non può il Premier sempre evitare di mettersi in dubbio quasi che avesse il dono della perenne infallibilità e credendo che siano gli altri, dolosamente o inconsciamente per chissà quale stupidità, a sbagliare ed essere avversi al cambiamento in favore di una conservazione di privilegi. I docenti, con gli adeguamenti contrattuali bloccati da tempo, e gli studenti, che fruiscono un servizio mai all’altezza del paese sviluppato e progredito che l’Italia dovrebbe essere, hanno ben pochi privilegi da proteggere, eppure protestano. Credo davvero che servirebbe più dialogo, molto più dialogo ed umiltà.

Sul piano Europeo l’importante incontro che si è tenuto tra il Premier Renzi, Lady Pesc Mogherini, il Segretario Generale ONU Ban Ki Moon sulla nave San Giusto lascia un po’ di amarezza. Non ci volevano certo decine di tragedie in mare ed il Segretario ONU per ricordare che la priorità deve essere salvare vite umane. Invece tale messaggio è stato trasmesso come se fosse chissà quale novità o scoperta, elogiato come una epifania mistica e fino ad ora imperscrutata. In tutto ciò l’Europa continua a fare orecchia da mercante cercando di “lavarsi la coscienza” con l’aumento del budget per “Triton”, ora portato a 9 milioni di € parimenti al precedente piano “Mare Nostrum”, ma senza il ben più gravoso impegno di accogliere e gestire i flussi migratori, onere che rimarrebbe al primo stato di approdo, tra gli altri l’Italia appunto.

In tutto ciò la scena, e quel che è peggio le energie politiche, sono concentrate sulla Legge Elettorale Italicum (poi verranno le regionali).

Importantissimo, non vi sono dubbi, modificare il Porcellum incostituzionale, ma si deve pervenire, in tempi ragionevoli e compatibilmente con le priorità di un paese e di un continente ancora in difficoltà economica, con gli interessi dei cittadini e con lo scenario di elezioni al 2018, ad un risultato che sia di qualità. Il meglio non si potrà raggiungere, non è nelle corde dell’uomo, ma non ci si deve accontentare al ribasso solo per poter fregiarsi di aver agito. Invece, onde evitare confronti, discussioni e modifiche all’Italicum, si stanno facendo conteggi, si sta meditando sul voto segreto, sulla fiducia, si pensa a far slittare i lavori per, ossimoricamente, contingentare i tempi e rendere il processo più rapido, si propongono, da parte del Governo, aperture sulla Riforma del Senato in cambio dell’appoggio alla legge elettorale, scambio che, visto l’autoritarismo ed il decisionismo Renziano pare tanto un “Do (poi) Ut Des (ora): Aspetta e Spera”.

In tutto ciò si fa largo, in tono quasi ricattatorio, pure l’ipotesi di fine legislatura e caduta del Governo, con elezioni, a questo punto, non prima di fine anno, ma con la parola ultima che, mai dimenticarlo, in caso di crisi governativa spetta sempre e comunque al Presidente Mattarella il quale dovrà decidere come agire, avendo nel suo mandato la possibilità di formare un nuove esecutivo (il Premierato italiano, a dispetto di quanto i più credono, non è eletto dal Popolo sovrano, ma i poteri gli sono conferiti dal Presidente della Repubblica).

Sorge il dubbio, alla luce dell’ipotesi avanzata da Renzi di fine legislatura, solo sino a qualche settimana fa collocata inderogabilmente al naturale termine del 2018, che non siano così infondate le voci secondo le quali dalla City della Tremenda Albione i poteri forti della finanza siano molto delusi dall’operato Renziano in tema economico. I dati sono deboli e non tali da indicare una concreta, tangibile e strutturale ripresa, lo 0.6-0.7% di PIL è insufficiente e passibile di revisioni ed anche il supporto di un prezzo del greggio molto basso non sembra aiutare più di tanto. Lo scenario economico continua (e continuerà ancora a lungo) ad essere in balia di eventi esterni incontrollabili: flussi migratori, terrorismo, Ucraina-Russia, Libia, crisi Greca. Il supporto dei palazzi Londinesi (dove a ridosso della sua nomina Renzi era solito andare e riunirsi con controparti non ben definite) al Premier starebbe dunque venendo meno e là starebbero lavorando per un qualche avvicendamento.

Forse queste sono solo fantasie figlie di un “complottismo” a volte dilagante ed eccessivo, ma in altri casi figlio di evidenze non avulse dalla realtà e dall’oggettivo andamento dei fatti.

Non serviranno molti sforzi per verificarlo: aver pazienza ed aspettare al più sino a fine anno.

Valentino Angeletti
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