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Fine del bipolarismo in UE: servono politiche totalmente differenti

L’esito delle presidenziali Austriache, con un testa a testa tra verdi, guidati da Van Der Bellen di cui tanto abbiamo potuto leggere, ed ultra-nazionalisti capeggiati da Norbert Hofer, è semplicemente l’atto ufficiale, la riprova, della morte del bipolarismo a livello dei singoli paesi membri dell’unione e dell’UE stessa.

Assai probabile che non esista più, anche se andrebbe verificato in occasione di voto europeo ma al momento pare proprio che sia così, lo scontro “bipolare” tra PPE e PES, ma avanzano con prepotenza fazioni e partiti di stampo più estremo, siano essi di destra che di sinistra, accomunati dal fatto di schierarsi apertamente contro l’establishment ed in molti casi contro tutta l’impalcatura dell’Unione Europea con le sue politiche economiche e migratorie. L’epiteto con cui spesso vengono apostrofati siffatti partiti è “populisti”, anche se ci sarebbe da domandarsi quanto populismo ci sia nello schierarsi contro una politica europea che ha messo in ginocchio la Grecia senza risolverne i problemi, o che è stata impotente nei confronti delle migrazioni che stanno colpendo l’Italia ed i suoi paesi più deboli in primis, essendo essi collocati come primo approdo e condannati al rispetto dei trattati di Dublino, o, più banalmente, non ha saputo contrastare la decadenza delle condizioni di vita e del benessere di gran parte dei suoi “cittadini”.

Medesimo processo è saldamente in corso in Italia, non sì è manifestato ufficialmente solo perché non c’è stata occasione di voto, ma già alle amministrative venture ne vedremo chiari segnali. La differenza rispetto alla maggioranza degli altri stati, è che in Italia molti dei voti tacciabili come populisti, vanno a colmare il bacino del M5S, che di certo non è un partito estremo come quelli che si presentano in Europa dell’Est, in Germania, ma anche in Francia e Spagna, ma che in questa fase politica del nostro paese ha serie possibilità di incamerare importanti successi alle amministrative delle prossime settimane, così come far valere la sua propaganda, se saprà ben impostarla unendosi ad altri cori portatori del medesimo pensiero, rispetto al referendum costituzionale, per la modifica della costituzione e della legge elettorale, che si terrà in autunno.

Mai come ora in UE, e l’Italia non fa eccezione, gli elettori sono disorientati e fluidi nelle loro scelte, a causa dei problemi che il sistema Europa non è stato in grado di gestire, da economia a finanza ed immigrazione. La tendenza è quella di scegliere, di volta in volta, quello che è ritenuto il male minore, dinamicamente, spesso impulsivamente e, nella quasi totalità dei casi, non schierandosi contro il Governo in carica che dovrebbe aver avuto il mandato di governare e lavorare per risolvere situazioni e migliorare le condizioni di benessere. Lavoro da svolgersi e entro i propri confini e, talvolta soprattutto, presso le istituzioni di Bruxelles.

Da notare che nel caso Austria, evidentemente, l’antieuropeismo è parso una soluzione peggiore del problema, e fortunatamente mi sento di dire. Si è infatti verificata una contingenza analoga a quanto accadde in Francia, dove ci fu una grande mobilitazione trasversale che consentì ad Hollande, in svantaggio, di sconfiggere al ballottaggio Le Pen.

Dobbiamo augurarci che anche i britannici abbiano lo stesso senno in occasione del referendum sull’uscita dall’unione e, più che dare ascolto a FMI, BCE, USA o al Premier Cameron che hanno messo in guardia i votanti dai rischi di una uscita dall’Unione, votino coscienziosamente, ragionando con l’oggettività di una mente non offuscata da “ire ed accidia” non dovute al fatto di fare parte o meno dell’Unione, ma causate da politiche errate e da condizioni economiche ed ambientali mai verificatesi prima (l’immigrazione verso l’UK, aumentata negli ultimi anni è strettamente conseguente ad una economia che altrove non da possibilità).

Ciò detto, pur sottolineando e rimarcando più e più volte il concetto che l’Europa può salvarsi e rimarne a galla in una dinamica mondiale dominata da scenari che cambiano repentinamente e spesso senza preavviso sovvertendo circostanze prima date per assodate (chi avrebbe mai detto che il Brasile sarebbe finito in una così tremenda recessione o che il Venezuela si trovasse di fronte a dover dilazionare l’energia elettrica a causa del prezzo del greggio di cui sono la più grande riserva mondiale? Oppure che le Big Company Oil&Gas inserissero nei loro piani industriali pesanti virate verso le energie rinnovabili?), se e solo se completa l’Unione a tutto tondo condividendo in modo quasi equo rischi e benefici e cambiando di conseguenza politiche economiche, finanziarie e migratorie, confermandosi il più grande mercato e la più grande economia mondiale, è da ribadire con la stessa veemenza che è necessario, ed è loro compito,  che le istituzioni riadattino rapidamente ed abbandonino totalmente buona parte degli approcci avuti in passato. Se ciò non avverrà, e mi duole dover fare una previsione tanto infausta quanto semplice,  prima o poi la grande scossa arriverà e temo che saranno dolori per tutti e tra i tutti noi italiani siamo a ridosso della pole position.

23/05/2016
Valentino Angeletti
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Fondi per l’Immigrazione: Bond o Accisa?

Sui fondi Europei per l’immigrazione si sta giocando l’ennesimo, stucchevole, scontro tra la visione tedesca e quella italiana.

L’Italia vorrebbe una sorta di Euro bond, mentre la Germania propende per una più immediata tassa sui carburanti.

La differenza non è banale, anzi è sostanziale, proprio per il meccanismo di erogazione di simili fondi.

Una accisa sui carburanti da allocarsi nella gestione dei flussi migratori è molto più flessibile, probabilmente meno onerosa, facilmente ritirabile; di contro un bond ha durata stabilita non trascurabile, un tasso remunerativo ed anche a livello di gestione dello stesso strumento che richiede più sforzi, risorse e costi, inoltre implica una condivisione dei rischi, che è quell’elemento di fondo contro il quale si è sempre schierata la Germania dei falchi.

 Precisato ciò è facile capire perché la Merkel preferisca una accisa pro immigrati anziché un’emissione comune. Innanzi tutto va ricordato, ma questo fattore è secondario rispetto a quello esposto di seguito, che il costo dei carburati in Germania è più basso che in Italia e quindi un leggero incremento temporaneo è sostenibile. In secondo luogo, ma fattore principale, la Germania è consapevolmente capace, una volta che l’emergenza sarà rientrata oppure i fondi erogati in modo differente dalla UE, di togliere immediatamente l’accisa.

L’Italia invece non ha una simile capacità, e neppure volontà visti i conti in perenne abbisogno di nuove risorse. Sulla benzina, che ha già prezzi esorbitanti, pesano ancora, inspiegabilmente, le accise per il terremoto del Belice, per gli interventi in Abissinia e Libia ed altre piacevoli amenità che rendono il costo tra i più alti di Europa. Dal canto nostro preferiremmo un bond, che è chiaramente mal visto dai tedeschi a causa della lunga durata e del rischio messo in comune, si tratta di un impegno vincolante, probabilmente più dispendioso e sicuramente con un grado di rischio più elevato. Non ultimo, a giustificare la preferenza del governo italiano per il Bond, è il riflesso elettorale che avrebbe l’accettazione di una accisa sui carburanti, proprio quando si cercano di disinnescare, con la stesura del nuovo DEF, le clausole di salvaguardia che tra l’altro, comprendono anche l’introduzione di nuove accise.

Facile dunque capire, pur nell’incomprensibile, o meglio materiale, egoismo nazionalistico tuttora vigente entro in confini UE, le due differenti vedute. Pur rimanendo dell’idea, prettamente personale, che per molte delle questioni europee, come ad esempio il rischio sistemico per le banche e per il settore del credito, giusto per citare un elemento al centro delle cronache in quest’ultimo periodo, il bond e l’Euro-Bond, come asseriva il professor Prodi, ma anche l’Ex Ministro Tremonti, sia lo strumento dal quale possiamo solo temporaneamente fuggire, ma prima o poi dovrà essere, paesi membri volenti o nolenti, adottato, a patto di voler continuare a mantenere attivo il progetto di una Europa unita e solidale.

20/04/2016
Valentino Angeletti
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L’irrisolto problema greco si ripropone: prosegue la recessione ad Atene e per l’FMI è allarme

Variegati ed importanti sono gli argomenti che tengono banco tra i media cartacei, televisivi ed in generale tra tutti i canali multimediali. Spaziano dalla politica allo spettacolo fino alla finanza. In particolare, l’informazione è focalizzata sulle unioni civili e le controversie politiche dovute al meccanismo della “Stepchild Adoption” del DDL Cirinnà, la ricerca dei candidati delle varie coalizioni in vista delle elezioni amministrative che si terranno a primavera in numerosi importanti comuni, il festival di Sanremo, la riforma delle banche sia a livello europeo, con l’introduzione del Bail In per la gestione delle insolvenze, che, internamente, delle banche di Credito Cooperativo ed infine, ma di grande importanza, la visita a Cuba e la seguente visita in Messico, del Papa e del Patriarca Krill che si sono incontrati proprio all’aeroporto di L’Avana, dando indubbiamente vita ad un evento di portata storica.

Oltre a quanto scritto sopra però, un allarme che coinvolge tutta l’Europa, è stato lanciato proprio poche ore fa dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). Invero, che questa piaga, lasciata irrisolta ad imputridirsi per troppo tempo, si sarebbe riaperta senza ombra di dubbio, lo avevamo scritto a più riprese in questa sede, ed ora la facile profezia si sta avverando non inaspettatamente, seppur non dotati noi di poteri chiromantici. L’istituto guidato da Christine Lagarde, ha riportato l’attenzione sulla Grecia, intimando il concreto pericolo di una sua uscita dall’Europa Unita.

La Grecia di Tsipras è prepotentemente ricaduta in recessione, del resto il governo Tsipras risulta essere una anatra molto più zoppa di quanto avvenga negli Usa quando il presidente ed il congresso risultano appartenenti a fazioni contrapposte. Quando è salito a palazzo, presso Syntagma, Alexis Tsipras ha dovuto accettare un piano di riforme ed  un programma di austerità dettato dall’Europa, la quale, solo sottostando al detto programma, ben lontano dalle idee della coppia Tsipras-Varoufakis caduta a Bruxelles, avrebbe sbloccato le tranche di aiuti concordati e necessari per i pagamenti e gli impieghi dello Stato verso i creditori ed anche per stipendi e pensioni. Il piano prevedeva tagli a stipendi e pensioni, nonché alle agevolazioni statali; gli stipendi e le pensioni, così come i tagli ai ministeri, sono già stati praticati e non possono colpire ulteriormente la popolazione che ancora non ha visto i lumi della tanto agoniata e promessa ripresa, anzi si è rivista la recessione, quindi è ora la volta dei tagli alle agevolazioni, in particolare a quelle agli agricoltori, pescatori ed allevatori, particolarmente importanti visto il peso che agricoltura, allevamento e pesca hanno nell’economia ellenica ed il numero di lavoratori che impiega, soprattutto appena ci allontaniamo dalle città e dalle zone turistiche per recarci nei luoghi più periferici o dell’entroterra. Gli impiegati del settore primario si sono mobilitati e stanno bloccando le strade ed intavolando proteste in piazza, inclusa piazza Syntagma, sede del Governo ellenico.

Era scontato che, appena la situazione economica Europea avesse subito un rallentamento, che include anche numerosi problemi, ora emergenti ma noti da tempo, al settore bancario, la vicenda greca si sarebbe ripresentata, e così, con una ricaduta in recessione, puntualmente è stato. Chiaro che la ricetta europea a base di austerità e tagli non è ciò che serve alla Grecia ed all’Europa per risolvere il grosso problema economico che ci sta travolgendo in modo differenziato da regione a regione, ma che ora sta colpendo anche la Germania, mostrando i primi problemi ad alcuni settori industriali ed ai consumi.

Alla recessione economica ed alle mobilitazioni degli agricoltori, Tsipras deve aggiungere la gestione del tema dei migranti, e gli adempimenti, 50 in tutto da eseguire in pochi mesi, che l’UE ha imposto per consentirle di permanere all’interno di Shenghen. Evidentemente in queste condizioni la Grecia non può riuscirci e sarebbe l’ulteriore, forse decisivo, passo verso la sua uscita dall’Europa ed alla conseguente disgregazione europea, che allora sarebbe solo questione di tempo.

Avevamo già detto, facendo eco a molte altre voci autorevoli e ben più illuminate, che la strategia europea era inconsistente ed inadatta a risolvere la situazione di permanente stagnazione economica quando non addirittura recessione, così come quella dei migranti, che si ripresenta immancabilmente ad ogni nuova primavera. Ribadiamo il concetto e ribadiamo come sarebbe ora di un definitivo cambio di rotta, sebbene crediamo che neppure questa sarà la volta buona, come il recente passato insegna.

 

14/02/2016
Valentino Angeletti
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Politica nazionale intrigata e rotture europee

Negli ultimi mesi non sono certo mancati gli argomenti che hanno tenuto in scacco la scena politica italiana. In gran parte si tratta di nodi tutt’ora irrisolti e che rappresentano uno scoglio per l’Esecutivo Renzi, anche se al contempo possono essere una riprova ulteriore, se mai ve ne fosse stato bisogno, di quanto la debolezza degli avversari sia conclamata. Soprattutto se si volge lo sguardo verso il centro destra, che, dopo l’uscita di Berlusconi, non ha ancora trovato una linea chiara e manifesta difficoltà nel proporre un leader serio e carismatico, tanto che Berlusconi si sta lentamente riavvicinando alla politica, così come, parimenti, non è in grado di portare candidati per le elezioni amministrative di primavera in grado di battagliare ad armi pari (quasi) con i vari Sala a Milano e Giachetti a Roma, in pole per rappresentare il PD nonostante le venture primarie che li vedono vincitori quasi scontati.

Nei giorni scorsi si sono susseguite le vicende della 4 banche ed in particolare nell’occhio del ciclone permangono le indagini su Banca Etruria che vede coinvolti personaggi molto legati, anche con vincoli di sangue, al PD di Renzi. Altra questione importante è stata la scelta, ancora in fieri, per i candidati alle primarie in vista delle amministrative primaverili; poi vi sono i voti mafiosi presso il comune di Quarto, che hanno messo il M5S di fronte ai problemi della politica vera (che ahimè è prassi in Italia) con le conguenti connivenze territoriali e nazionali, la scelta del Movimento di espellere il sindaco, la grillina Capuozzo, e di richiederne le dimissioni per non aver saputo controllare possibili legami con la camorra di un membro pentastellato della sua giunta, è stata una mossa coerente rispetto al comportamento tenuto in casi analoghi del passato, quindi caso Cancellieri,  Lupi, Marino, Boschi (caso su cui il M5S ha preteso il voto di fiducia all’Esecutivo) ecc, la richiesta non poteva non avvenire; altro tema caldo sono le unioni civili, divisive soprattutto internamente al PD, e le riforme istituzionali/costituzionali, che non dovrebbero aver difficoltà nei prossimi passaggi in Senato e Camera e non dovrebbero averne di particolari, a meno di improbabili coalizioni iper-trasversali, da Lega a Sel passando per il M5S, neppure al referendum confermativo di ottobre, referendum che Renzi, spostando l’attenzione dalle amministrative ove la forza del M5S è concreta, ha incentrato su se stesso e che in caso di bocciatura comporterebbe il suo abbandono, stando alle parole del Premier, dalla politica.

In questo contesto, tanto intrigato quanto per noi comune, non si sentiva la mancanza dei battibecchi a livello europeo. Invece ne sussistono di molto cruenti, forse perché ormai in prossimità del vaglio della nostra legge di stabilità a Bruxelles, legge totalmente in deficit che sicuramente non passerà, priva di critiche, moniti o richieste di revisioni, senza una ulteriore richiesta di chiarimenti in merito al reperimento, preciso e puntuale delle risorse. Lo scontro stavolta è avvenuto non coll’austero presidente dell’Euroguppo, Jeroen Dijsselbloem, bensì col più diplomatico presidente della Commissione, Jean Claud Juncker. La scintilla che ha innescato il tenzone, è stata la flessibilità concessa all’Italia; il Premier attribuisce i margini ottenuti alle sue richieste, mentre per il presidente lussemburghese i margini non sono altro che concessioni europee che lui stesso ha, in ultimo, acconsentito. Juncker ha risposto a Renzi, a seguito delle pungenti e violente critiche che il Premier ha rivolto, parlando entro i confini nazionali, verso il comportamento della Commissione decisamente più penalizzante nei confronti dell’Italia rispetto ad altri paesi membri (Banche ed immigrati in primis), Renzi ha anche affermato, contraddicendo le sue precedenti parole, che in Europa non vanno cambiati i trattati (cosa che qualche mese fa voleva fare) bensì la politica economica (decisamente una bella virata). Il litigio, che sta proseguendo anche in queste ore, potrebbe essere molto controproducente per il nostro paese, visto che, come scritto sopra, la legge di stabilità passerà a marzo al controllo di Bruxelles, essa è decisamente protratta verso il deficit e presenta una ulteriore richiesta di flessibilità nel rapporto deficit/pil (circa 0.2%).

Sia l’accusa di Renzi, decisamente più violenta che in passato, che la risposta di Juncker, anch’essa sopra le sue solite righe, possono far pensare a due scenari. Da un lato Renzi che alza i toni con argomentazioni che possano attecchire sulla popolazione e sugli elettori in vista di elezioni più vicine rispetto alla scadenza naturale del 2018; dall’altro lato Juncker che vuole ribadire come sia la commissione ad approvare le manovre economiche italiane e le sue richieste di flessibilità, cercando quindi di ridimensionare le pretese nostrane.

Forse non sapremo mai quale interpretazione sia vera e neppure se ve ne sia una, di certo una rottura simile è quanto di meno utile vi sia, e per l’Europa e per l’Italia, in un momento di altissime tensioni economico sociali a livello globale.

 

16/01/2016
Valentino Angeletti
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Risultato delle politiche UE: trionfo di Le Pen alle regionali in Francia. Anche se il secondo turno è molto più complesso

Le ultime settimane sono state ricche di vicende politiche di rilevanza non trascurabile. Sì è partiti, come in un climax ascendente, dai rapporti interni al PD, che sono andati via via risanandosi, seppur con alle porte la scelta dei candidati per le primarie in vista delle amministrative del 2016. Questa aura di pace, da molto tempo assente tra i democratici, non ha fatto in tempo a sedimentarsi, almeno all’apparenza, che dati economici diramati dall’ISTAT, peggiorativi rispetto a quanto ipotizzato dal Governo (0.7% contro 0.9% di PIL), hanno risvegliato la divergenza di vedute tra ampie parti del PD ed il suo Segretario-Premier, in particolare riguardo alle misure votate all’economia ed al lavoro, rispetto alle quali anche i sindacati e le organizzazioni datoriali hanno espresso, con modalità e vigore differenti, numerose perplessità. Ma il vero catalizzatore politico dell’ultimo periodo sono state le elezioni amministrative regionali francesi.

L’esito, senza precedenti, è stato eclatante ed assolutamente inconfutabile: vittoria schiacciante, al primo turno del partito di estrema destra “Front Nationalle” guidato dalle eredi di Jean Marie: Marine Le Pen e la cugina Marion Maréchal Le Pen. La vittoria è stata netta in 6 delle 13 regioni d’oltralpe (vedere immagine) ed ha raggiunto a livello nazionale un dato attorno al 30%. Le 6 regioni sono state spartite tra le due cugine Le Pen: quelle del Nord hanno visto candidata direttamente Marine, mentre quelle più a Sud la nipote Marion, ben più estrema nelle sue ideologie rispetto alla zia. Mentre Marine ha posizioni, sì radicali, ma più aperte nei confronti di immigrazione ed islamismo, che rimangono un pilastro dell’economia francese, e sui diritti omosessuali, la più giovane Le Pen risulta quasi “nazista” in taluni aspetti dei suoi programmi, ove spicca il totale ripudio degli immigrati, degli islamici e la pressoché totale preclusione nei confronti dei diritti omosessuali. Ambedue sono accomunate dallo spiccato spirito anti europeo. Ricordiamo che Marine, quando il leghista Salvini si proclamava Lepenista e professava certe politiche di estrema restrizione nei confronti degli immigrati e degli islamici, la Marine, navigata conoscitrice delle dinamiche economiche e politiche francesi, se ne è prontamente discostata.

Esito 13 regioni elezioni regionali francesi 2015

Esito 13 regioni elezioni regionali francesi 2015

Queste votazioni sono state le prime dopo gli attentati di stampo islamico presso la redazione Charlie Hebdo e quella identificata come “strage del Bataclan”, ma collegare idealmente la vittoria della estrema destra a questi tragici episodi è o totalmente strumentale oppure denota cecità tipica di sinistri (inteso da aggettivo qualificativo) personaggi, come ad esempio lo statunitense Donald Trump. Possono aver infervorato gli animi degli indecisi o di coloro già elettori dell’estrema destra, ma che abbiano ampliato l’assenso nei confronti di FN tanto da spostare l’ago della bilancia, è impensabile.

Già da tempo la vittoria della Le Pen era nell’aria, sia in francia che a Bruxelles. Questa ha le radici nella crisi economica e soprattutto in come è stata affrontata dall’Unione Europea. La stessa Marine ha dichiarato che la sua vittoria, preludio, nei suoi piani, alla scalata all’Eliseo nel 2017, è il risultato nella popolazione francese delle politiche e delle imposizioni dei burocrati di Bruxelles. Medesime parole, senza troppa originalità d’analisi, sono state usate dal Premier Renzi per descrivere la vittoria Lepenista e la debacle di Hollande e del partito socialista, alleato del PD presso il Partito Socialista Europeo. Non sfugge a questa analisi anche il presidente della Commissione UE Junker, il quale ha aggiunto che, continuando nella direzione dei nazionalismi, entro 10 anni l’Unione rischia di essere cancellata.

A ben vedere la preoccupazione di J. C. Junker non è affatto remota. I nazionalismi imperversano in molti paesi europei, principalmente dell’est, ma non solo. In Italia siamo relativamente immuni a questa deriva, non esiste una destra, nè di centro nè estrema, in grado di mirare allo scranno nazionale. La Lega, movimento indubbiamente che più ha tratto vantaggio dalle derive destrorse anti europee, non ha ancora saputo elaborare una politica nazionale che richiederebbe o un totale assoggettamento di partiti quali FI al leader Salvini oppure un alleggerimento delle proprie posizioni, in contrasto con quelle che sono le caratteristiche di “originalità” leghista 2.0. Coloro che più possono assurgere al ruolo di partito di protesta sono i militanti ed i politici a 5 Stelle, che, stando ai sondaggi, potrebbero togliersi soddisfazioni nella prossima tornata amministrativa di primavera, ma che di certo poco hanno a che spartire coi programmi lepenisti.

Ciò che però Juncker dimentica di aggiungere, è che la situazione attuale altro non è che l’esito di una prolungata insistenza europea verso certe direttrici politico-economiche sicuramente errate almeno per taluni contesti, tra i quali annoveriamo Francia ed Italia, senza peraltro cogliere l’esempio di quanto attuato in USA per far ripartire con vigore (ovviamente non senza problemi) l’economia, il PIL e soprattutto il lavoro. L’agire austero di Bruxelles altro non ha fatto che allontanare sempre di più la popolazione del vecchio continente dai valori fondanti l’unione, rendendola apatica e diffidente nei confronti della politica, alla quale è stata posta come controreazione un ritorno ai nazionalismi, alle chiusure nazionalistiche ed alla paura del diverso, in opposizione alla necessaria contaminazione ed arricchimento culturale del mondo globalizzato.

Ora in Francia vi sarà il secondo turno, dove l’incognita principale è l’astensionismo. La vittoria della Le Pen, percentualmente eclatante, si sminuisce se letta con l’aritmetica dei numeri assoluti. Solo il 50% degli aventi diritto si è recata alla urne, ne risulta che FN ha vinto con il 30% del 50% degli elettori, quindi il 15% degli aventi diritto (chiaro è che il ragionamento si estende, amplificandosi, anche alle altre forze politiche i cui risultati sono quasi risibili, principalmente per Hollande).

Per Le Pen il secondo turno di domenica prossima sarà durissimo perché si prospetta una coalizione Socialisti – Repubblicani (pur non richiesta dal furbo Sarkozy, che ben sa che, anche senza suo esplicito messaggio, Hollande chiederà ai suoi di sostenere l’UMP dell’ex presidente Sarkò) in chiave anti FN e perché gli astensionisti, “partito” vincente come in Italia, non sono votanti di FN, che come ogni movimento di protesta ha mobilitato alle urne, con la speranza di un cambiamento radicale, la quasi totalità dei suoi elettori, ma principalmente delusi ed ex votanti tipicamente di Hollande, che di certo tutto vorrebbero meno che vedere un partito di estrema destra al governo.

Il messaggio all’Europa è stato lanciato, sicuramente sarà colto da partiti simili a FN in altri paesi europei (in Italia dalla Lega), ma soprattutto, per non incappare in una cocente sconfitta istituzionale, dovrà essere recepito nei palazzi di Bruxelles, per reindirizzare una politica che da tempo diciamo essere inappropriata al contesto economico, sociale e politico che stiamo vivendo.

08/12/2015
Valentino Angeletti
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Dubbi su Greferendum: se Atene piange, stavolta Sparta (Merkel) sorride

Il termine è scaduto, ma al momento tutto è ancora in stand-by e quale sia il destino della Grecia tra default controllato, default, uscita dall’euro, accettazione del piano UE o viceversa imposizione delle proprie richieste alla Commissione, è ancora un mistero, nonostante il rating sovrano portato a “Selected Default”.

La data, entro la quale il rimborso all’FMI di 1.6 mld avrebbe dovuto essere restituito, è stata oltrepassata senza corrispondere la somma. Ad oggi, nessuno sa ancora come comportarsi e ciò è segno di assoluta impreparatezza dei leader che da svariati anni hanno condotto le trattative, esacerbandole fino a questo epilogo. Di sicuro si sa che negoziati e gli incontri continuano, quasi come se la scadenza tutto sommato contasse il giusto. C’era da aspettarselo, perché fino alla fine ognuno ha pensato che la controparte, sotto la pressione del “timing”, avrebbe ceduto. Addirittura anche l’Italia, fino ad ora inconcepibilmente assente dai summit di primaria importanza, pare essere maggiormente coinvolta, anche se in modo tardivo e quando la voce in capitolo che può avere, è pressoché nulla. L’elemento al quale si può addurre, ma non esclusivamente, questo terzo tempo è il referendum che Tsipras ha indetto per il 5 luglio. Un referendum non sull’Euro, moneta che oltre il 65% dei Greci vuole mantenere ed entro la quale lo stesso Tsipras è convito di restare per ovvie ragioni di sopravivenza, ma se accettare o meno il piano proposto dall’UE.

La conformazione del referendum è stata fin da subito strana, innanzi tutto si concede di votare, su una materia altamente tecnica e complessa che vede anche fior di esperti divisi nelle opinioni, ad un popolo in balia della povertà e del disagio, quindi forse non completamente lucido. Detto ciò, va bene ed è giusto così, perché si tratta di democrazia ed analogo ragionamento può essere applicato a qualsivoglia di forma di democrazia “consultiva diretta” e quindi a qualsiasi votazione (questioni etiche in primis). Quel che ha lasciato più dubbi però, è l’assenza di un testo, che abbia corso di validità al momento del voto, su cui, appunto, il popolo dovrebbe pronunciarsi.

A Tsipras, fino ad ora, va dato atto di aver perseverato, seguendo sue idee e valori, senza cedere ed incondizionatamente. Condivisibili o meno le ragioni del Premier ellenico, gli vanno riconosciute una forza e risolutezza veramente non comuni, almeno dalle nostre parti, dove il panorama politico (non tutti i politici per carità, persone di valore si trovano anche nei palazzi del potere, ma in genere gli è impedito di agire in autonomia) è mediamente popolato da personaggi più “cedevoli”.

Sul referendum le opinioni sono discordanti: c’è che dice che Tsipras stia scaricando decisioni in capo alla politica sul popolo per lavarsi le mani in caso di sconfitta; c’è invece chi sostiene che sia un paladino della democrazia e della libertà.

In questa fase più concitata però, sembra che Tsipras sia vittima di timori, paure e perplessità. Parrebbe che abbia fatto una controproposta all’UE, sulla base di quella a sua volta ricevuta dalle istituzioni, a meno di 5 modifiche. In caso di accettazione il Primo Ministro di Atene sarebbe disposto a ritirare il referendum.

Questa mossa sembra davvero, e non il referendum in se, un tentativo di salvarsi in extremis, potendo tornare in patria e dire di aver strappato alla commissione molte, o le più importanti, dipende da come vorrà impostare il messaggio comunicativo, delle concessioni promesse in campagna elettorale.

In caso di referendum (Greferendum) invece, Tsipras potrebbe temere di uscirne sconfitto qualsiasi sia l’esito. Sicuramente sconfitto e forse con le dimissioni in mano in caso di “Sì” al programma UE, ma ora, anche in caso di vittoria dei “No”, v’è una ipotesi non considerata dal PM Greco a valle del lancio del voto popolare, ossia l’uscita della Grecia dall’Euro e non il “semplice” cambio di politica economica dell’Unione. Del resto le istituzioni UE, e con esse tutti i leader politici, hanno impostato la campagna per il “Si” sul piano del terrore per una GrExit che getterebbe la Grecia in una povertà solitaria (ma vanno anche considerate le reazioni di USA, Cina, Russia, Turchia). Se questo fosse lo scenario ne conseguirebbe che il risultato di Tsipras, e del referendum in ultima istanza, sarebbe stato quello o di non aver capito che il popolo greco era disposto ad accettare altra austerità (improbabile), oppure di aver gettato, con una nuova Dracma, la popolazione in povertà aggiuntiva rispetto a quella già presente (svalutazione del 30-50% dei patrimoni).

Stavolta, se Atene piange, Sparta ride, non a squarciagola, ma sorride. Sparta è la Merkel, probabilmente nell’ombra di Schauble, che avendo capito il rischio che Tsipras corre, e supponendo che possa valere da esempio per altri “spericolati pifferai”, pretende che ormai la Grecia vada fino in fondo con il Referendum, e da lì in poi si imposteranno, sulla base dei risultati, nuove trattative. Per la Merkel, in caso di “Sì” non vi sarebbero problemi (Tsipras sconfitto), in caso di “No” si riaprirebbero i negoziati, stavolta però con in mano delle istituzioni i documenti pronti per una GrExit, da sventolare sotto il naso di Tsipras qualora continuasse la sua inamovibilità.

A prescindere dalla posizione, come al solito interessata, del Cancelliere tedesco anche a Tsipras, giunto a questo punto, conviene portare il referendum fino in fondo. Anche lui ha tirato moltissimo la croda e cedere in questa fase sarebbe il peggior segno di debolezza, a meno di non ottenere condizioni eccezionali per il popolo greco, ipotesi neppure concepibile.

Purtroppo in tutto ciò, molto avvincente per appassionati di economia e politica (come me), si dimentica che l’obiettivo da perseguire dovrebbe essere il rafforzamento e la protezione degli interessi Europei, per una Unione differente, più solida, competitiva e prospera, ma tutto ciò non è mai stato realmente tenuto in considerazione.

30/06/2015
Valentino Angeletti
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Mi spiace sinceramente, ma sulla ricchezza degli italiani il pressapochismo di Renzi a Bersaglio Mobile non è tollerabile nell’attuale contesto sociale

Senza far trasparire alcun, seppur minimo, dubbio, negli ultimi giorni abbiamo avuto modo di sentire, dalla bocca del Ministro Padoan e, con una sicurezza quasi sconfortante, dello stesso Renzi, proprio nelle scorse ore intervistato a Bersaglio Mobile dal bravo Enrico Mentana e dalle altrettanto lodevoli Gaia Tortora ed Alessandra Sardoni, numerose manifestazioni di ottimismo sulla situazione economica italiana e sulla ricchezza (disponibilità di danari su conti bancari) dei nostri concittadini.

Il Ministro Padoan, al solito, si è mostrato più pacato, ma ha comunque tenuto a sottolineare come, pur non dovendo cadere nell’errore di abbassare la guardia, la recessione sia terminata e ciò sarebbe dimostrato dal miglior dato sul PIL dal 2011 a questa parte, vale a dire il +0.3% riferito al Q1 2015 rispetto al trimestre precedente (che scende a 0 se confrontato col medesimo periodo del 2014 -link di approfondimento-).

Decisamente meno moderato invece il Premier Renzi, che non ha nascosto il suo entusiasmo nell’affermare, su La 7 nel salotto di Mentana, che l’Italia è uscita dalla crisi, che le persone si stanno arricchendo e che quello che manca è solamente la fiducia nel futuro. A detta del Premier, la dimostrazione della sua sentenza è l’aumento dei depositi bancari che starebbe a significare che la ricchezza c’è, mentre a latitare sarebbero consumi e spesa, proprio per mancanza di fiducia da parte dei potenziali consumatori. La fiducia, come abbiamo ripetuto più e più volte, è un elemento fondamentale nel traghettare fuori dalla crisi ed è effettivamente vero che, qualora mancasse, sarebbe assente un elemento basilare per la ripresa economica ed in particolare dei consumi, soprattutto di lungo termine e dei beni durevoli.

Detto ciò però, l’affermazione del Presidente del Consiglio sembra un po’ azzardata e semplicistica, come del resto lo è quella riferita alla diminuzione del numero di cassa integrati e del calo del ricorso a questo ammortizzatore sociale da parte delle aziende. Per Renzi il dato è molto positivo, e così sarebbe se non fosse che in realtà tale diminuzione sembra sia causata non tanto dall’aumento di lavoro, che continua a non sussistere, essendo la drammatica percentuale dei disoccupati costantemente attorno al 13% con picchi del 42-43% per gli under 24, quanto dalla fine dei fondi allocati alla cassa integrazione che necessitano infatti di un rifinanziamento. Un presidente dovrebbe essere più cauto quando proferisce simili parole, perché potrebbe causare indignazione, a parte nei nemici giurati: “I Sindacati”, in coloro che sono coinvolti, loro malgrado, in questi meccanismi, siano essi lavoratori che imprese.

Tornando invece all’ottimismo riguardo all’uscita dalla crisi va detto che l’incremento dei depositi bancari che il Premier ha distribuito in modo lineare su tutta la platea degli italiani pare non essere così omogeneo, anzi pare non esserci affatto.

Gli ultimi dati diramati dall’Ocse confermano una tendenza consolidata già da molti anni e che, nonostante le belle parole, i buoni propositi e le promessi di impegni concreti delle istituzioni, si è stati incapaci di arginare: i ricchi stanno diventando sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri, in altri termini si acuisce il divario sociale in modo sempre più accentuato e preoccupante, con classi sociali sempre meno valicabili, una mobilità sociale inesistente ed una classe media che sta perdendo le certezze che la facevano un motore economico, relegandola sempre più vicino alle soglie di povertà certificata e quindi sicuramente con meno capacità e volontà di spesa rispetto a periodi più rosei e certi (per approfondimenti sui rilevamenti OCSE, che smentiscono in toto l’affermazione del Premier di rimanda al link del sole 24 ore). Se il fenomeno è comune in tutta Europa, lo è ancora più marcatamente in Italia. Va detto che il problema dell’uguaglianza sociale non è nuovo, anzi sono anni che lo si addita come elemento di disaffezione nei confronti delle istituzioni, europee in particolare, dei partiti, della politica di austerità, ed ha contribuito a creare tensioni sociali notevoli, tumulti, a cominciare dalla Grecia e Spagna, i movimenti degli Idignados, di Occupy Wall Street, di partiti come Podemos, UKIP e movimenti populisti o xenofobi.

Già si scrissero vari pezzi e riflessioni in merito, riportiamo di seguito solo alcuni:

  1. Abbassare l’indice GINI con la meritocrazia e la collaborazione generazionale 24/06/2013
  2. Censis: i poveri raddoppiano. Per loro solo speranze, poche possibilità nel breve 12/07/2014
  3. Italia “deisegualissima”, dice il Censis. A cosa è dovuta questa disuguaglianza? 04/05/2014
  4. Scenari da Davos e la quarta R da aggiungere alle tre della Lagarde 26/01/2014
  5. Italicum, normative banche Popolari e Cooperative sulla scena italiana. Diseguaglianza domina il WEF ed il discorso sullo stato dell’Unione USA di Obama 20/01/2015

Evidentemente siamo di fronte alla dimostrazione di come ci sia stata totale incapacità (o volontà, o interesse?) di affrontare concretamente il problema della diseguaglianza. Da quelle date, da quei banali scritti segnalati, datati 2 anni circa or sono, nulla è cambiato, anzi la situazione è peggiorata, e ciò lo ha certificato il Censis prima e l’Ocse poi. Come è possibile quindi affermare, come ha fatto con leggerezza il Premier, peraltro senza un briciolo di contraddittorio, che in Italia i soldi ci sono e che il problema è l’assenza di fiducia che non induce i benestanti depositari di buoni conti bancari a spenderli? Se soldi ci sono sono nelle mani di pochi, un 10-20% della popolazione, i soliti noti, incolpevoli se si sono arricchiti con lavoro e nella legalità, che può spendere in consumi di nicchia, che forse neppure ha ridotto esageratamente i propri consumi e le proprie abitudini non avendo forse sentito gli effetti della crisi; che compra beni particolari, le cui produzioni limitate non sono in grado di trainare economia, consumi interni, lavoro e reddito diffuso. Simili approssimazione e pressappochismo, nella condizione e nel contesto sociale che dobbiamo affrontare, non son tollerabili, mi spiace sinceramente.

Va dato atto al Premier che il Governo ha lavorato, con il Jobs Act, per cercare di combattere un elemento altamente legato alla povertà in Italia, come è possibile leggere nell’articolo del Sole 24, che è quello del lavoro atipico. Se l’efficacia sarà quella desiderata e necessaria va ancora dimostrato, in ogni caso lo sforzo in quella direzione c’è stato.

Guardando poi la situazione attorno a noi, ci si accorge che essa è tutt’altro che semplice. Il Governo, talvolta incolpevole perché ereditiero di problemi pregressi, ha dovuto affrontare la tegola della sentenza della Consulta sulle pensioni costata al momento 2’180 milioni di €, che ha risolto a mio avviso in modo parziale, perché ritengo che la Corte, a valle dei ricorsi in arrivo, dovrà pronunciarsi nuovamente. IN aggiunta a ciò ora dovrà affrontare il mattone proveniente da Bruxelles che non ha dato il via libera alla reverse charge sull’IVA, il cui pagamento avrebbe dovuto passare dai fornitori al settore della Grande Distribuzione. Il costo ammonterebbe a 728 milioni di €, che, stando alla legge di stabilità, in tale situazione dovrebbero essere ricavati dall’aumento delle accise sui carburanti, ipotesi smentita dal MEF, intenzionato a reperire le risorse mancati dalla lotta all’evasione (ma sappiamo come queste entrate aleatorie poco piacciano alla Commissione che preferisce le ben più stabili imposte sui consumi, come le accise o ancor meglio gli aumenti dell’IVA).

Estendendo lo sguardo in Europa prendiamo atto delle difficoltà persistenti. L’Eurozona cresce, ma ancora lentamente, afferma il Governatore BCE Draghi.  Una crescita non tale da sostenere una ripresa con le basi strutturali necessarie per aumentare gli investimenti e per creare nuovo lavoro. La crisi greca sembra ancora lontana da una soluzione, la stessa Merkel ha detto che la risoluzione non è ancora visibile, mentre Tsipras, come al solito, si è mostrato più ottimista dicendo che la Grecia è aperta al dialogo ed a risolvere la situazione senza però incorrere negli errori del passato. Tale affermazione vuol dire tutto e nulla, perché quelli che per Alexis Tsipras sono errori del passato, per il Bruxelles Group sono proprio i passi richiesti. L’ipotesi di un default greco, con permanenze di Atene nell’Euro, sembra ormai solo questione di tempo, evidentemente una simile circostanza, pur non comportando l’uscita, che sarebbe devastate, dalla moneta unica, contribuirà a ridurre l’autorevolezza europea, già ai minimi livelli, nei confronti degli interlocutori mondiali, come USA, Russia, Cina; inoltre è assai probabile che contribuisca ad aumentare la disaffezione dei cittadini europei che si sentono sempre meno parte di un progetto che alla luce dei fatti è incapace di portare benessere diffuso e distribuito, uguaglianza, ed è impotente di fronte ai complessi problemi, all’ordine del giorno nel mondo moderno e globalizzato, come il terrorismo, i grandi flussi migratori, le tensioni tra gli stati confinanti come Russia ed Ucraina, tutti messi in secondo piano rispetto a slanci protesi alla protezione dello status quo, in particolare da parte degli Stati più forti e potenti. Probabilmente ciò porterà conseguenze alle venture elezioni spagnole e nel referendum sulla permanenza in Europa del 2017 in UK che ha consentito la vittoria dei Conservatori (Link)

La condivisione del rischio, dei problemi, il contributo secondo il principio di cooperazione e proporzionalità, per risolvere situazioni complesse che comportano nell’immediato una spesa progressiva, commisurata alla loro potenza e ricchezza, tra i paesi membri, ma benefici e stabilità strutturale per tutta l’Unione nel lungo periodo, è utopia ancora lontana, nonostante sia un caposaldo ricordato anche da Draghi nel suo ultimo intervento (Link), e soprattutto elemento imprescindibile dalla sopravvivenza del progetto Europeo come intesero i padri fondatori.

Altro che abbondanza di soldi, ripresa già in atto e bloccata solo dalla mancanza di fiducia…

La fiducia non c’è spesso per motivate ragioni e la situazione è assolutamente assai complessa e non riassumibile con una banale parafrasi del tipo:

“Fidiamoci, speriamo e spendiamo che da domani arriva il sole…..”

23/05/2015
Valentino Angeletti
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Situazione politica tesa e contesto sempre più difficile suscitano critiche ed ipotesi di scenari quasi da complotto

Ogni giorno che passa si diviene sempre più consci e consapevoli di quanto, nonostante i proclami dei nostri leader di governo, la situazione italiana sia sempre più complessa e lontana dall’essere sulla via di un concreto, tangibile e duraturo miglioramento.

Il lavoro, pur tra le dichiarazioni ottimistiche troppo affrettate (come giustamente rimarcato da Poletti), non è ancora ripartito e ne sono una testimonianza reale, ben più oggettiva dei presunti 90’000 nuovi contratti a tempo indeterminato che probabilmente sono in maggior parte trasformazioni di vecchi rapporti precari ed instabili, le vertenze Wirphool-Indesit (nonostante gli accordi presi col Governo in sede di cessione della Ex Merloni), Auchan, che in Sicilia denuncia concorrenza sleale da parte di supermercati locali che praticherebbero contratti a tempo pieno trattandoli come se fossero part-time e risparmiando di conseguenza sui costi -se così fosse si tratterebbe di un caso palese di sfruttamento- , e Mercatone Uno, storico marchio sponsor del grande Pantani dei tempi d’oro, che ha portato i libri contabili presso gli uffici di Bologna per avviare le pratiche di fallimento. In tutto ciò ballano migliaia di posti di lavoro e queste vertenze, visto che il bianco e la grande distribuzione sono settori di consumo, testimoniano il proseguire della stagnazione, a prescindere dagli alti e bassi fisiologici dei dati mensili, bimestrali o trimestrali. Ci si deve augurare che il MISE ed i Ministri Guidi e Poletti assieme ai Sindacati lavorino alacremente per proteggere l’occupazione, in cui non ci si possono permettere ulteriori defezioni conferendo il sostentamento degli esuberi ad ammortizzatori sociali che richiederebbero risorse pubbliche scarseggianti, e contemporaneamente si concentrino per modificare un mondo del lavoro decisamente troppo obsoleto.

Anche la riforma della scuola lascia perplessi. Le proteste vengono da tutti i fronti, non può il Premier sempre evitare di mettersi in dubbio quasi che avesse il dono della perenne infallibilità e credendo che siano gli altri, dolosamente o inconsciamente per chissà quale stupidità, a sbagliare ed essere avversi al cambiamento in favore di una conservazione di privilegi. I docenti, con gli adeguamenti contrattuali bloccati da tempo, e gli studenti, che fruiscono un servizio mai all’altezza del paese sviluppato e progredito che l’Italia dovrebbe essere, hanno ben pochi privilegi da proteggere, eppure protestano. Credo davvero che servirebbe più dialogo, molto più dialogo ed umiltà.

Sul piano Europeo l’importante incontro che si è tenuto tra il Premier Renzi, Lady Pesc Mogherini, il Segretario Generale ONU Ban Ki Moon sulla nave San Giusto lascia un po’ di amarezza. Non ci volevano certo decine di tragedie in mare ed il Segretario ONU per ricordare che la priorità deve essere salvare vite umane. Invece tale messaggio è stato trasmesso come se fosse chissà quale novità o scoperta, elogiato come una epifania mistica e fino ad ora imperscrutata. In tutto ciò l’Europa continua a fare orecchia da mercante cercando di “lavarsi la coscienza” con l’aumento del budget per “Triton”, ora portato a 9 milioni di € parimenti al precedente piano “Mare Nostrum”, ma senza il ben più gravoso impegno di accogliere e gestire i flussi migratori, onere che rimarrebbe al primo stato di approdo, tra gli altri l’Italia appunto.

In tutto ciò la scena, e quel che è peggio le energie politiche, sono concentrate sulla Legge Elettorale Italicum (poi verranno le regionali).

Importantissimo, non vi sono dubbi, modificare il Porcellum incostituzionale, ma si deve pervenire, in tempi ragionevoli e compatibilmente con le priorità di un paese e di un continente ancora in difficoltà economica, con gli interessi dei cittadini e con lo scenario di elezioni al 2018, ad un risultato che sia di qualità. Il meglio non si potrà raggiungere, non è nelle corde dell’uomo, ma non ci si deve accontentare al ribasso solo per poter fregiarsi di aver agito. Invece, onde evitare confronti, discussioni e modifiche all’Italicum, si stanno facendo conteggi, si sta meditando sul voto segreto, sulla fiducia, si pensa a far slittare i lavori per, ossimoricamente, contingentare i tempi e rendere il processo più rapido, si propongono, da parte del Governo, aperture sulla Riforma del Senato in cambio dell’appoggio alla legge elettorale, scambio che, visto l’autoritarismo ed il decisionismo Renziano pare tanto un “Do (poi) Ut Des (ora): Aspetta e Spera”.

In tutto ciò si fa largo, in tono quasi ricattatorio, pure l’ipotesi di fine legislatura e caduta del Governo, con elezioni, a questo punto, non prima di fine anno, ma con la parola ultima che, mai dimenticarlo, in caso di crisi governativa spetta sempre e comunque al Presidente Mattarella il quale dovrà decidere come agire, avendo nel suo mandato la possibilità di formare un nuove esecutivo (il Premierato italiano, a dispetto di quanto i più credono, non è eletto dal Popolo sovrano, ma i poteri gli sono conferiti dal Presidente della Repubblica).

Sorge il dubbio, alla luce dell’ipotesi avanzata da Renzi di fine legislatura, solo sino a qualche settimana fa collocata inderogabilmente al naturale termine del 2018, che non siano così infondate le voci secondo le quali dalla City della Tremenda Albione i poteri forti della finanza siano molto delusi dall’operato Renziano in tema economico. I dati sono deboli e non tali da indicare una concreta, tangibile e strutturale ripresa, lo 0.6-0.7% di PIL è insufficiente e passibile di revisioni ed anche il supporto di un prezzo del greggio molto basso non sembra aiutare più di tanto. Lo scenario economico continua (e continuerà ancora a lungo) ad essere in balia di eventi esterni incontrollabili: flussi migratori, terrorismo, Ucraina-Russia, Libia, crisi Greca. Il supporto dei palazzi Londinesi (dove a ridosso della sua nomina Renzi era solito andare e riunirsi con controparti non ben definite) al Premier starebbe dunque venendo meno e là starebbero lavorando per un qualche avvicendamento.

Forse queste sono solo fantasie figlie di un “complottismo” a volte dilagante ed eccessivo, ma in altri casi figlio di evidenze non avulse dalla realtà e dall’oggettivo andamento dei fatti.

Non serviranno molti sforzi per verificarlo: aver pazienza ed aspettare al più sino a fine anno.

Valentino Angeletti
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Soluzione greca lontana, parti distanti, tempi stretti ed euro pochi

Tsipras-Varoufakis“Il destino della Grecia è solo nelle sue mani”. Con questa frase il Governatore della BCE Mario Draghi ha descritto la situazione greca andando a significare ed a sottolineare come, lato istituzioni Europee (Ex Troika o Bruxelles Working Group che dir si voglia), il possibile è già stato fatto.

In tal senso, dal punto d’osservazione istituzionale, è chiaro come il destino della Grecia dipenda da Atene stessa: accetti il programma di riforme richiesto dall’Europa o ne presenti uno che ne ricalchi i dettami, e le tranche di aiuti saranno consegnate nelle mani di Varoufakis; in caso contrario non pare più esserci margine di trattativa. Viceversa è evidente che il destino, forse dell’intera Europa, ma sicuramente dello scenario economico finanziario dell’immediato futuro, è strettamente legato all’evolversi della vicenda greca. La dimostrazione è stata la violenta reazione dei mercati che ha seguito gli aggiornamenti provenienti da Washington dove si teneva il summit finanziario tra i Ministri delle Finanze europei, BCE ed FMI.

Probabilmente la notizia che le piazze finanziarie, ai massimi da svariati mesi/anni e pesantemente bisognose di giustificare una massiva presa di profitti ed uno scaricamento degli oscillatori, hanno colto al volo per stornare con decisione e per innalzare in modo generalizzato il livello degli Spread, è stata quella secondo la quale nella casse di Atene rimarrebbero appena 2 miliardi per il pagamento di stipendi e pensioni, con alle porte due importanti tranche di rimborso: 2.5 miliardi di € al FMI entro maggio-giugno e 7.5 miliardi alla BCE entro luglio-agosto. La notizia, subito smentita da Atene, effettivamente pare non essere troppo fondata poiché fu proprio il Ministro ellenico Varoufakis, pur mantenendo il consueto ottimismo poco oggettivo e poco avvalorato dai fatti, a dichiarare che difficilmente la soluzione all’impasse potrà avvenire all’Eurogruppo del 24 aprile, di sicuro si dovrà attendere almeno la fine di giugno.

È dunque ipotizzabile che almeno fino alla fine di giugno Atene sia in grado di onorare i propri impegni considerata l’assoluta intransigenza di BCE ed FMI sulle riscossioni che gli spettano. Secondo la testata tedesca Spiegel alla Grecia starebbero per arrivare in soccorso la Russia, che verserebbe 5-5.5 miliardi per i diritti di passaggio del nuovo gasdotto Turkish Stream, e Pechino, interessata a prendere parte ai processi di privatizzazione, tra cui il porto del Pireo, che l’UE chiede fortemente a Tsipras, per una quota di 10 miliardi di provenienza cinese. Se queste siano illazioni senza fondamento oppur realistiche, allo stato attuale delle cose, non lo si può sapere, certo è che nell’orbita degli interessi di Mosca a Pechino, che pure con diplomazia hanno smentito ufficialmente un simile supporto economico, vi è sicuramente lo Stato ellenico.

Lo scenario rimane bloccato e senza segni che lascino presagire sviluppi immediati. La posizione delle istituzioni è nota: intransigente ed in attesa della lista delle famose riforme che vadano a sostituire quelle presentate da Tsipras e Varoufakis non soddisfacenti per la loro genericità e difficoltà nell’essere quantificate oggettivamente in termini di introiti effettivi. La Grecia invece, per bocca dei sui leader Tsipras e Varoufakis, continua a non voler mollare. Del resto le promesse fatte in sede elettorale non possono essere disdette e nel paese cominciano a riaccendersi le tensioni, in particolare tra anarchici e polizia che sono venuti i contatto anche nei giorni scorsi. Varoufakis addirittura talvolta pare cadere in un ingiustificato eccesso di sicurezza ed emanare una lontananza dalla difficile realtà sia della trattativa sia del suo paese. Fuori luogo infatti è sembrata la risposta “radioso” alla domanda su come percepisse il futuro greco fatta da alcuni giornalisti a Washington. Ci sono poi i mercati in attesa di notizie ed illazioni per giustificare i propri movimenti ed a poco servono gli ammonimenti e le messe in guardia di Draghi indirizzate a coloro che vorrebbero speculare contro l’Euro.

Sullo sfondo vi è il futuro economico, istituzionale e politico dell’Europa. Le opzioni sono limitate: o la Grecia accetta le riforme, ma al momento non pare intenzionata a scendere a compromessi visto che è stato confermato l’innalzamento dei livelli dei salari minimi ed in programma rimangono l’aumento delle pensioni ed il reinserimento della tredicesima ai salari più bassi, tutte misure draconiane di riduzione salariale e di taglio lineare inserite dal precedente governo; oppure si prospetta l’insolvibilità di Atene. Questa seconda ipotesi lascia il campo a due strade, il default con mantenimento della moneta unica ovvero l’uscita dall’Eurozona.

Le istituzioni ed il Ministro italiano dell’economia Padoan cercano di tranquillizzare, assicurando che le misure prese dall’Europa sono in grado di sopportare un eventuale default ellenico e secondo il Ministro Italiano l’Italia è al sicuro da un eventuale contagio. L’approccio votato, forse oltremisura, all’ottimismo che i leader politici sono soliti trovare in questi grandi eventi istituzionali (forse coadiuvati dalle tartine al salmone) è dimostrato dalle parole di Pier Carlo Padoan, secondo le quali il debito italiano sarebbe sotto controllo e non in crescita…. In realtà gli ultimi dati Istat indicano un nuovo massimo storico a 2169.2 mld: altro che in fase di stabilizzazione! Così come la situazione ellenica e ben lungi dall’essere sotto controllo.

Un “semplice” default probabilmente è davvero sopportabile e, pur nel segreto che cela operazioni simili, a questa via pare si stia preparando la Germania della Merkel. Differente invece il discorso di un’uscita dall’Euro che sarebbe un “precedente” tale da dare il liberi tutti a mercati e speculatori con primi target verso Italia e Spagna. Rispetto a questa seconda via stanno prendendo contromisure nella City londinese importanti istituti finanziari, ben consci che sarebbe una situazione non indolore neppure per loro che eppure all’Europa non sono legati dalla valuta comune. Ovviamente BCE ed istituzioni, con Draghi sugli scudi, cercano di rassicurare gli animi, asserendo che l’Euro è irreversibile e che anche nel malaugurato caso di “incidente GrExit” l’UE ha raggiunto un livello di solidità tale da poterlo metabolizzare. Difficile credervi, le potenze finanziarie pronte a scagliarvisi contro sono molto più forti, la reputazione europea verrebbe asfaltata più di quanto già non lo sia e le parole successive dello stesso Governatore BCE , confermando i timori e gli scenari preoccupanti riportati sopra, paiono più realistiche:

“L’incidente ci farebbe entrare in un territorio inesplorato ed ignoto”.

Mancano poche settimane e non conviene più a nessuno protrarre oltremodo questo stillicidio. Va necessariamente trovata una soluzione definitiva, alcuni non fanno altro che attendere lo sfacelo, ma molti altri, in Grecia soprattutto, stanno lottando per la sopravvivenza e contro la povertà. A questo punto un po’ di egoismo lo si può conferire anche al comportamento dei leader greci e l’Europa da par suo non può continuare una intransigenza che è stata complice di un avvitamento perverso del malessere sociale. Le soluzioni possibili non sono molte e l’uscita della Grecia dall’Euro, a mio insignificante modo di vedere, sarebbe l’inizio della fine dell’esperimento europeo. Nonostante tutto le poche vie percorribili ed in grado di offrire qualche possibilità di esito positivo paiono bloccate da ostacoli insormontabili ed i viandanti poco determinati ad operarsi per renderle nuovamente agibili.

19/04/2015
Valentino Angeletti
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Pasqua a Washington per Varoufakis e Lagarde con l’ombra del Daily Telegraph su una nuova Dracma

Non sarà certo una Pasqua tranquilla per i leader greci Tsipras e sopratutto Varoufakis, e c’è da giurare che non lo sarà neppure per la Direttrice FMI Christine Lagarde. Sugli scudi c’è ancora il braccio di ferro tra Atene e le istituzioni europee ora Brussels Group (ex Troika con l’aggiunta dell’ESM European Stability Mechanism). La vicenda, nonostante dai media nostrani sia stata messa un po’ in secondo piano rispetto alla situazione politica interna animata dalle solite tensioni nei partiti a cominciare da FI e PD in vista delle prossime regionali e dalla corsa alle limature sul DEF alla caccia dei fondamentali 10 miliardi circa per evitare le clausole di salvaguardia pronte per il prossimo anno, continua ad agitare i sonni di molti.

I vari piani di riforme proposti da Tsipras non hanno fino ad ora convinto Bruxeelles. Per la Commissione UE rimangono troppo aleatori e non precisamente quantificabili nelle entrate, si basano su stime previsionali come la lotta all’evasione, importantissima ma non valutabile ex ante con oggettiva precisione, il rientro di capitali esteri, il rilancio delle privatizzazioni, tra cui quella del Porto del Pireo, la vendita delle frequenze televisive e la reintroduzione della tassa sugli immobili. Mancano tutti gli elementi di austerità richiesti dalle istituzioni europee su pensioni, i pesanti tagli alla pubblica su amministrazioni e sanità e l’ulteriore accelerazione sulle privatizzazioni, azioni che Tsipras non può permettersi onde il venir meno alle promesse fatte in campagna elettorale che gli hanno consentito la fiducia popolare e la conseguente elezione.

Se l’Europa può dilungarsi (ma quanto realmente?) nel muro contro muro mantenendo alta la tensione nei negoziati che durano da tempo ed è prevedibile che dureranno almeno qualche altra settimana, non vale lo stesso per il FMI. L’istituto di Washington deve infatti ricevere entro il 9 aprile la tranche da 458 milioni di Euro del prestito elargito al Partenone e che non ha la minima intenzione di prorogare oltre scadenza. Analogo ragionamento si può fare per la Grecia che, nonostante le smentite governative, potrebbe già essere in crisi di liquidità. I depositi privati sono diminuiti di 30 miliardi dal novembre scorso ed hanno superato al ribasso i 150 miliardi complessivi. Alle Banche elleniche è stato precluso il QE ed ogni forma di rifinanziamento eccezion fatta per la linea d’emergenza ELA; anche l’emissione di altri titoli di stato a breve termine che hanno superato il limite dei 15 miliardi non è stato consentito dalla BCE.

Se Tsipras e Varoufakis tranquillizzano che entro il 9 verrà saldato il debito con l’FMI e verranno pagati stipendi e pensioni, le voci secondo cui sarebbero in realtà a rischio, si fanno sempre più insistenti. Le ultime provengono dal Daily Telegraph e dall’economista Piketty, che indicano la situazione greca ormai non sostenibile a lungo. Secondo il quotidiano britannico fonti attendibili riporterebbero che la Grecia stia pensando a due vie per sopportare l’onere dei rimborsi che dovranno essere erogati prossimamente e che oltre a FMI, stipendi e pensioni, si compongono anche di  250 milioni di euro d’interessi in scadenza a fine mese e dal rifinanziamento dei titoli che matureranno il 13 e 17 aprile prossimi per un totale di 2,4 miliardi di euro: non proprio una inezia quindi. Le due vie sarebbero la nazionalizzazione delle banche e l’emissione di titoli di pagamento per stipendi e pensioni in una forma differente dall’Euro.

La locuzione forma diversa dall’Euro di fatto sarebbe il ritorno ad una moneta nazionale che anche se non nominata Dracma e anche se inizialmente circolante in parallelo all’Euro costituirebbe il precedente ufficialmente sancitorio della disfatta e revocabilità della moneta unica, mai neppure ipotizzata come seria opzione da BCE ed istituzioni. La notizia, seppur, ripetiamo, smentita ufficialmente, non ha avuto il meritato risalto. L’eventualità di uno strumento di pagamento alternativo, che per come stanno le cose non pare campata del tutto in aria, sarebbe l’inizio della disgregazione europea che nessuno vuole, ma che, se le trattative ed i negoziati non si indirizzano più concretamente verso una soluzione di compromesso, rischia di diventare realtà con la conseguente esplosione dei mercati e delle devastanti manovre speculative sugli spread tali da mettere in ginocchio, con un effetto domino virale, anche altri stati a cominciare da Italia, Spagna e probabilmente anche Francia.

Alla luce di ciò l’incontro dell’8 aprile, immediatamente precedente al rimborso di Atene all’FMI, tra Putin e Tsipras può essere visto come la volontà di tessere e stringere un rapporto in vista di qualche evoluzione estrema, proprio come la reintroduzione di una valuta nazionale. Certo è, come detto da Moscovici, che Tsipras è libero e ben fa a trattare con chiunque, ma i tempi e gli scenari sono sospetti e le licenze di perforazione nell’Egeo fanno gola ad una nazione che vuole mantenere la sua egemonia energetica come la Russia, tanto più in un momento in cui la guerra dei prezzi del greggio e la trattativa di Losanna, con gli accordi in fieri sul nucleare Iraniano che potrebbero concretizzarsi comportando uno stop alle sanzioni, rischiano di far ribassare ulteriormente il prezzo del petrolio e delle commodities energetiche le quali Putin vorrebbe ben più care.

Non sarà una Pasqua facile per Varoufakis e Lagarde, ma non possono stare troppo tranquilli neppure a Bruxelles, ed è bene che seguano interessati l’evolversi della vicenda perché non è una esagerazione affermare che ne va del futuro economico e sociale di un intero continente e forse anche oltre.

04/04/2015
Valentino Angeletti
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