Archivi Mensili: giugno 2015

Grecia: meno due all’epilogo (anche quello europeo?) ormai quasi scontato

È durato poco più di un’ora per essere rimandato ad aggiornamenti successivi, quello che doveva essere l’incontro decisivo sul futuro greco tra i leaders ellenici e i rappresentati delle istituzioni creditrici. Probabilmente un ulteriore round si terrà martedì 30, ultimo giorno utile, ma già oltre ogni scadenza tecnica, per il rimborso degli 1.6 mld dalla Grecia all’FMI. Nel frattempo oggi è in atto il direttivo BCE per cercare di capire come gestire l’eventuale (ma ormai certa) impossibilità di Atene di rimborsare i creditori e gli aiuti che tramite il programma ELA al momento sono i soli a sostenere la banche greche sull’orlo della crisi di liquidità, anche dovuta alla corsa agli sportelli bancari del popolo ellenico, per prelevare i propri risparmi e metterli al sicuro oltreconfine o, più facilmente per le persone comuni, sotto il materasso. Tra creditori ed Atene non c’è stato accordo e, come detto nei pezzi riportati precedentemente, l’impasse sulla crisi si è aggravata andando ormai ad oltrepassare, viste le tempistiche sempre più stringenti per giungere ad un accordo, ogni livello di guardia. Le posizioni tra le controparti si sono allontanate ed irrigidite. Da un lato la proposta dei creditori che avrebbero messo sul piatto 15 miliardi di euro, un prestito ponte, dicasi anche palliativo o pezza di circostanza, che avrebbe consentito ad Atene di protrarre l’agonia ancora 5 mesi scadenza entro la quale Tsipras avrebbe dovuto elaborare un piano di riforme gradito al Bruxelles Group, contrariamente a quelli proposti fino ad ora, che seppur vicini anche numericamente alle richieste europee non hanno convito i creditori in merito a pensioni, innalzamento IVA, tassazione e tagli alla spesa, in altri termini ancora troppo basso il livello di austerità. Guarda caso 5 mesi sono anche il tempo necessario per arrivare a ridosso delle elezioni in Spagna, temute in caso di concessioni alla Grecia per via delle richieste che Podemos, sulla falsariga di Tsipras, potrebbe avanzare, tanto da far diventare il Premier Rajoy quasi un falco. Per tale motivazione, se concessioni saranno acconsentite a Tsipras, i creditori non vorrebbero farlo prima delle elezioni autunnali. Le richieste di Tsipras, messo per un momento da parte il programma di riforme indigesto, pur se vicino nei numeri (come scritto in precedenza), a coloro seduti dall’altro lato del tavolo delle trattative, erano state quelle di una proroga degli aiuti e del rimborso oltre il 5 luglio, meno di una settimana quindi, domenica in cui dovrebbe tenersi un referendum popolare. Il referendum, ancora ipotetico, non riguarderebbe la permanenza nell’Euro, al quale secondo i sondaggi sarebbe favorevole il 65% del popolo ellenico, bensì se accettare o meno il piano di riforme proposto dalle istituzioni.

Nonostante si legga da più parti che la corsa agli sportelli bancari dei Greci sarebbe una sorta di voto al referendum proposto da Tsipras, quasi a voler sottintendere che la volontà di permanere nell’euro darebbe una spinta al voto favorevole al piano della Ex Troika, in realtà non è così. Anzi è vero proprio il contrario. Innanzi tutto è comprensibile, in preparazione di una, improbabile, uscita dall’euro, cercare di preservare in euro i propri capitali e ciò può essere fatto trasferendo i conti altrove e principalmente, fintanto che si deve fare una operazione simile, verso zone a bassa tassazione (Olanda, Lussemburgo, Cypro, Svizzera e perché no, Singapore ed Hong Kong), oppure mantenere biglietti euro in casa, sotto il materasso o per chi può permetterselo in cassaforte. Per coloro che avessero fatto una simile azione, paradossalmente e senza considerare i debiti privati, una uscita dall’euro potrebbe essere anche vantaggiosa, in quanto è probabile che il capitale prelevato aumenti il proprio valore da un minuto all’altro del 30% (per la precisione sarebbe la nuova moneta ellenica ad essere svalutata, secondo alcune simulazioni, del 30% circa, ma l’effetto è il medesimo).

Invero l’esito del voto pare scontato: difficilmente ci sarà l’accettazione del programma di riforme della Troika. L’austerità ha già troppo mietuto il popolo greco, i cui Governi non sono sicuramente incolpevoli, sul quale si è abbattuta la scure dell’inflessibilità cieca europea ed è comprensibile che la popolazione non voglia sentire neppur parlare di nuove tasse o tagli che fino ad ora l’UE ha imposto linearmente. L’Unione, per non creare un precedente, il quale avrebbe potuto essere letto come spirito di unione, collettivo aiuto e mutuo soccorso all’interno di una UE convergente verso una vera unione di interessi, quindi dimostrazione di forza, ha protratto una politica asfissiante, esacerbando una situazione divenuta molto più costosa ed ingestibile rispetto a quanto non fosse 2-3-4 anni or sono. All’interno del Parlamento di piazza Syntagma si sono schierati in favore del referendum Syriza ed Alba Dorata, gli estremi di sinistra e di destra dell’Emiciclo, segno evidente che il sentimento anti politiche UE è trasversale e che non vi sono più schieramenti o correnti che agiscono e si pronunciano secondo comportamenti canonici e standard. Ormai la critica all’Europa è trasversale e di ciò le istituzione e Bruxelles ne devono tenere conto, cercando anche di capire il perché, il quale evidentemente risiede, avendo accomunato parti che nulla avrebbero in comune, in una errata gestione di situazioni complesse ed emergenziali. Nonostante ciò però non pare vi sia reale volontà di cambiare spartito.

Stanti così le cose, ed in questo poco tempo che rimane difficile pensare ad uno sblocco, il 30 giugno la Grecia risulterà insolvente nei confronti dell’FMI, gli aiuti verranno interrotti ed i 7.2 miliardi spettanti ad Atene bloccati. Si andrà incontro ad un default controllato con conseguente ristrutturazione del debito che coinvolgerà principalmente BCE e Stati, con i pole position Germania (circa 60 mld), Francia (circa 50 mld), Italia (circa 40 mld). Come detto in pezzi precedenti, è difficile pensare all’uscita dall’euro della Grecia, GrExit, perché sarebbe l’ammissione troppo evidente di una sconfitta e potrebbe innescare un pericolosissimo effetto domino. Non parimenti ad una GrExit, ma anche un nuovo default controllato della Grecia è terreno inesplorato e periglioso. Padoan rassicura in merito alla situazione dell’Italia, ma, seppur rafforzata da alcune riforme, e soprattutto dalla politica monetaria BCE e dalla situazioni contingenti positive, nulla può contro eventuali e probabili reazioni impetuose dei mercati, che, contrariamente alle istituzione europee che solo ora stanno lavorando seriamente a scenari complessi a valle dell’epilogo greco, avevano già in precedenza simulato ogni possibilità, preparandosi a varie eventualità, in particolare quella più probabile e scontata già da tempo di una default controllato di Atene. Se default sarà, da allora in poi nulla sarà più certo, tantomeno le sorti delle successive scadenze dei rimborsi di Atene ai creditori, che di certo non saranno corrisposte in pieno.

L’esasperazione della vicenda Greca, patria, illo tempore, della moderna democrazia, creò la polis e fece del popolo il sovrano della cosa pubblica, rischia seriamente, con colpe bipartisan dei Governi Greci, esecutivo Tsipras incluso, e delle istituzioni UE, di essere l’epilogo di un esperimento di unificazione di valori, interessi, economia, politica, moneta, regole, rischi e benefici, encomiabile negli intenti, negli obiettivi, nella missione, necessario per competere nella globalizzazione sfrenata del mondo, ma male iniziato, non disinteressato, viziato da errori evidenti mai corretti e da politiche inadatte a perseguire gli obiettivi ed i risultati inizialmente nei.

Se sarà fallimento nessuno tra Stati ed Istituzione potranno dirsi incolpevoli, nonostante una popolazione europea ormai scoraggiata e diffidente nei confronti dell’attuale UE, ma profondamente convinta e pienamente consapevole, e ciò può essere motivo di speranza, di quanto sia indispensabile perseguire quel progetto europeo come fu pensato dai padri fondatori.

Per chi volesse avere una panoramica sugli ultimi sviluppi della crisi greca ecco 4 pezzi delle ultime due settimane (ma per chi volesse cercare sul blog ve ne sono molti altri):

28/06/2015
Valentino Angeletti
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Crisi Greca: i creditori cambiano approccio, non chiedono più il “solo” rispetto di vincoli e parametri, ma impongono la politica economica

Avevamo detto (Crisi Greca: Eurosummit moderatamente ottimista, ma ancora nessuna soluzione definitiva) che le posizioni tra Creditori, leggasi Brussels Group, ovvero FMI, BCE, Commissione UE, e debitrice, vale a dire Grecia, non erano troppo distanti, a dire il vero in precedenza mai erano risultate così prossime come in questo momento. I mercati, notoriamente poco lungimiranti, festeggiavano, ma avevamo anche posto l’attenzione sul fatto che in molti ed autorevoli esponenti dei creditori, tra cui il più intransigente FMI, il Ministro tedesco Schauble e di riflesso il Cancelliere Merkel, ritenevano che il lavoro da farsi fosse ancora assai lungo e di fatti una soluzione definitiva a valle dell’ultimo Eurosummit d’emergenza e delle riunioni successive (ben tre in una settimana) non c’è stata, anzi, via via, le parti sono parse allontanarsi sempre di più. Ciò evidentemente, a parte l’ottimismo diffuso, non è un buon segno per una vicenda che è stata esacerbata oltremodo ed il cui costo è lievitato in modo inconcepibile.

Le cifre in ballo non erano e continuano a non essere insormontabili, lo abbiamo riportato noi, così come il ben più competente e noto giornalista economico Federico Fubini in un pezzo su Repubblica. Stando ai freddi ed oggettivi numeri non avrebbe senso non procedere ad un accordo, magari limando ancora di poco le pretese da ambo i lati.

Adesso invece sembrano sorgere tipi di problemi differenti, che preoccupano sia Tsipras, che i creditori, coinvolgendo gli equilibri politici interni ai singoli stati. Problemi i quali, se volessimo vedere quella in cui siamo incastonati, come una vera Europa Unita, simile a colei che fu pensata dai padri fondatori, non avrebbero motivo d’essere.

Tsipras non può spingersi a concedere ciò che in campagna elettorale, nei comizi ed interrogazioni parlamentari seguenti aveva assolutamente promesso di non concedere; analogamente i creditori, in particolare FMI, non vogliono dare eccessive concessioni per non rischiare che altri paesi ne avanzino di simili (in primis Podemos in Spagna), e che dal loro punto di vista non sono state conferite ad altri stati in difficoltà benché per il Premier ellenico con altri paesi, come appunto Irlanda o Portogallo, ci fu maggior volontà di concludere positivamente il negoziato. Questa rigidità avrebbe fatto addirittura paventare a Tsipras l’ipotesi di un disegno specifico per non concludere la trattativa, oppure l’esplicita volontà di difendere interessi particolari ed affossare la Grecia, quasi che vi fosse un disegno di una spectre occulta, un progetto implementato da un Bildeberg che vorrebbe assere fatto accadere, apparendo quasi casuale.

I nodi della discordia riguardano, in linea generale, una divergenza di fondo: i creditori vorrebbero uno spostamento per il reperimento di risorse da tassazione (che nei piani di Tsipras coinvolgerebbe i ceti più ricchi) verso tagli alla spesa, tipicamente welfare e pensioni. Tsipras invece ha impostato il suo programma proprio cercando di colpire i più ricchi, preservando al contempo il welfare delle classi meno abbienti, già colpite e ormai oltre la soglia di povertà. I creditori spingono per un’Iva su tre fasce, e del 23%, livello massimo, per i ristoranti, mentre il governo Tsipras, per preservare il turismo, insiste per una aliquota del 13%. Il gruppo di lavoro di Bruselles (ex Troika o Brussels Group) respinge poi l’idea di una tassa del 12% sui profitti societari superiori a 500’000 €. Secondo la Lagarde, parlando alla rivista Challenges:

«Non si può basare un programma solo sulla promessa di nuovo gettito fiscale. È stato fatto negli ultimi cinque anni, con pochi risultati».

A dire il vero in tutti i paesi più o meno risanati, dall’Irlanda al Portogallo, ma anche in Italia, il rispetto dei vincolo e dei parametri UE è stato raggiunto a mezzo di austerità ed in particolare maggiore tassazione, accise sui carburanti, incremento dell’IVA (ricordiamo le dissertazioni fatte in questa sede sulla curva di Laffer), imposta sugli immobili. In italia ben pochi invece sono stati i tagli di cui ci sarebbe un dannato bisogno e sul quale da anni hanno lavorato commissioni su commissioni e fior di esperti, senza però ottenere risultati degni di tal nome. La Grecia invece ha fatto tagli che se applicati in Italia oscillerebbero, in proporzione, tra i 250 e 300 miliardi, ovviamente adesso ogni ulteriore taglio andrebbe a gravare su servizi essenziali, salute (per la quale in Grecia si deve già pagare), trasporti ed in generale tutto quel welfare che rende un paese davvero civile, vivibile e terreno ove può insediarsi un livello decente di crescita economica.
Sul versante pensionistico, i creditori insistono per un taglio delle pensioni più generose, anziché un aumento dei contributi come previsto dal governo Tsipras per fare quadrare i conti. Vogliono inoltre un aumento dell’età pensionabile da 62 a 67 anni fin dal 2022 e la soppressione delle pensioni anticipate che Tsipras ha concesso già a partire dal 2016.

Le posizioni e le somme non sono distanti, sicuramente la fretta esiste ed i tempi sono minimali, i 7.2 miliardi di aiuti alla Grecia sono indispensabili per Atene in modo da pagare stipendi e pensioni. Per l’FMI è altrettanto indispensabile però il rimborso del debito da 1.6 miliardi entro il 30 giugno e senza il quale non è intenzionato a concedere la tranche di aiuti dovuta alla Grecia.

Analizzando questi ultimi sviluppi della vicenda greca, sembra trasparire un mutato approccio da parte delle istituzioni europee. Mentre in occasioni precedenti, al momento di vagliare i documenti di economia e finanza dei vari paesi, avevano come unico pilastro di controllo il rispetto di parametri e difficilmente, se non con consigli o messaggi più o meno velati, ma mai imposti (anche perché non ne avrebbero avuto il potere), suggerivano una misura piuttosto che un’altra. Ora l’atteggiamento è mutato, ed oltre a pretendere il rispetto dei vincoli, tendono ad imporre, e nel caso greco possono permettersi di provare a farlo essendo loro i deputati allo sblocco degli aiuti, le politiche economiche e le misure da adottare. Una cessione, o usurpazione, a seconda di dove la si guardi, di sovranità in piena regola. Da un certo punto di vista questo nuovo approccio potrebbe anche essere vantaggioso e coerente con una Unione che dovrebbe tendere ad unificare banche, norme, leggi, fisco, ecc, se non fosse che quanto imposto dai creditori alla Grecia sembrano essere misure recessive (taglio pensioni già basse, aumento IVA, aumento IVA su attività turistiche ecc e contemporanea protezione da aumento tasse di detentori di grandi patrimoni) impostate al protrarre l’austerità, bloccando di conseguenza ripresa, consumi, potere d’acquisto. Riassumendo si tratta di Misure pro cicliche a tutti gli effetti e sicuramente non funzionali alla ripresa del paese, dell’Europa, nè tanto meno a dare l’idea agli interlocutori internazionali di una UE solida e forte, sia politicamente che economicamente.

Trattasi di solo una sensazione, ma di Grecia si sentirà parlare ancora a lungo, come altrettanto a lungo, e forse di più, si dovranno gestire gli effetti della sua “epopea”.

Valentino Angeletti
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Crisi greca: Eurosummit moderatamente ottimista, ma ancora nessuna soluzione definitiva

greece-debt-crisisScaturisce, a valle dell’Eurosummit convocato d’urgenza per cercare di porre finalmente la parola fine alla crisi greca, una certa aurea di ottimismo, assente nelle simili e numerose occasioni del recente passato. Pare ci sia, per la prima volta, un livello di convergenza dei piani accettabile: quanto presentato da Tsipras è stato definito una sufficiente base di partenza per avviare le discussioni e per cercare di trovare una conclusione a questa lunga ed esasperata vicenda entro mercoledì sera od al più entro l’Eurogruppo di giovedì 25 giugno.

Le borse festeggiano, Atene ha fatto registrare un +9%, e le piazze europee sono cresciute tra il 2 ed il 3%, ma si sa, i mercati ragionano a breve e brevissimo termine e non sono termometri affidabili per comprendere la reale stabilità di un’area economica, a maggior ragione se complessa e disarticolata come quella europea. Anche la capitale ellenica ha festeggiato quasi fosse un capodanno (ma non erano anti Euro??), le sue piazze erano colme di manifestanti misti tra moderati pro euro, la maggior parte, ed esponenti di sinistra ed anarchici, felici perché (ma ciò vedremo che non è completamente vero) dal loro punto di vista il Premier ateniese avrebbe scardinato le resistenze delle Istituzioni UE-BCE-FMI.

Le linee generali del piano proposto da Tsipras vertono su tagli di spesa (tra ministeri, difesa, pensioni e stipendi elevati ecc ma non al welfare collettivo come sanità) pari al 2% del PIL, a fronte di una richiesta UE del 2.5%: sono in ballo circa 8.5 miliardi di € di differenza, una cifra non esagerata che l’UE potrebbe anche decidere di accettare. Un avanzo primario pari al 1% nel 2015, per poi passare al 2% nel 2016 ed al 3% nel 2017. Un anticipo del’età pensionabile a partire dal 2016 e non tra 10 anni come da piani Tsipras-Varoufakis iniziali e un deciso stop ai prepensionamenti (decisamente insostenibili) avviati negli anni scorsi. Un aumento dell’Iva, ma in due fasce pari al 13% e 23% con spostamento di alcuni prodotti/servizi nella fascia alta, ma non medicinali, beni di prima necessità, servizi alberghieri e turistici, elettricità che rimarrebbero in fascia bassa. L’Ue avrebbe invece chiesto 3 fasce: 3, 13 e 23% con eliminazione del fisco agevolato nelle isole turistiche, e questo risulta un importante punto di discordia tra UE e Governo Greco. Un aumento del contributo di solidarietà per i privati con reddito oltre i 30’000 € e le aziende oltre i 500’000 € di fatturato, ai cui sicuramente si opporranno i potentissimi armatori ellenici che sovente sono stati ben poco avvezzi al pagamento del fisco.

Nel frattempo la situazione della banche elleniche è complessa tanto che il fondo salvastati ELA è stato rimpinguato di 1,8 miliardi. I prelievi agli sportelli negli ultimi giorni sono ammontati alla cifra record di 1 miliardo/giorno che si aggiungono ai  30 miliardi ritirati tra ottobre 2014 ed aprile 2015 portando gli istituti di credito letteralmente sull’orlo di una crisi di liquidità. Il 65% dei crediti bancari sono in favore della UE e nel fondo salvastati i più presenti sono la Germania, la Francia e l’Italia, rispettivamente con circa 60, 50 e 40 miliardi di €, che in caso di default ellenico non verranno corrisposti in somma piena.

Come detto precedentemente, per la prima volta il piano è stato timidamente definito una buona base di discussione, ma non manca chi, e si tratta di esponenti di peso, ricordano che il lavoro da fare è ancora tanto ed il percorso lungo: saranno 48 ore intense di lavoro, in particolare per gli sherpa, che alacremente lavorano senza soluzione di continuità per preparare gli incontri ufficiali, solo la punta dell’iceberg di un articolato susseguirsi di trattative a cui coloro che compaiono nei grandi vertici non partecipano neppure. I gufi, direbbe il premier Renzi, sono il solito ed austero falco Schauble, la Lagarde, interessata in quanto creditrice alla quale deve essere corrisposta la prossima tranche di pagamento di Atene, ma anche la Merkel, che aveva già anticipato che non sarebbe stato questo Eurosummit l’occasione per arrivare ad un accordo più o meno definitivo. In realtà il Cancelliere tedesco si nota essere più aperto alla trattativa di un tempo, ma, diplomaticamente, non può contraddire il proprio ministro delle finanze, così come deve fare attenzione ai delicati equilibri di Governo interni alla grande coalizione CDU-SPD, ove presenti sentimenti discordanti sull’approccio alla situazione ellenica, non mancano infatti oppositori alla flessibilità, e le tensioni sono tali da poter mettere in pericolo la stabilità di governo.

Effettivamente di concreto ancora non v’è nulla, ma tutto va discusso e definito in modo dettagliato e stabile. Le scadenze per Atene sono stringenti, deve corrispondere 1.6 mld € entro il 30/06 all’FMI di Lagarde, e, entro il 20/07, 3.5 mld alla BCE. La Lagarde, direttrice dell’FMI, non ha lasciato dubbi, se l’istituto che presiede non venisse pagato, non c’è la disponibilità a sbloccare la trance di aiuti da 7.2 miliardi prevista dai precedenti piani di aiuti. In tal caso, dal primo luglio, Tsipras non avrebbe denari a sufficienza per pagare stipendi e pensioni, ed allora sarebbe un grosso problema, anche per la stabilità sociale del paese.

Oltre alla trance da 7.2 miliardi Atene dovrebbe ricevere altri 18 miliardi, previsti dai vecchi aiuti, entro l’aprile 2016. Altri aiuti Tsipras non ne vuole, infatti la proposta di Schauble di conferire ulteriori 35-40 miliardi non è stata approfondita, in quanto Atene non si è detta disponibile a ricevere soldi per pagare debiti, ma punta alla ristrutturazione del debito, misura assai indigesta ai creditori. Non a caso la proposta è pervenuta da Schauble, tedesco e creditore per 60 miliardi, tramite il fondo ELA, della Grecia, immediatamente prima di Francia (circa 50 mld) ed Italia (40 mld), che in caso di ristrutturazione del debito non verrebbero rimborsati in toto.

Oltre a non volere nuovi prestiti la Grecia si oppone ad ogni altra misura o taglio a stipendi o pensioni che possano accentuare ulteriormente la recessione, che nel paese ellenico si è ripresentata con veemenza nell’ultimo anno. Del resto le misure di austerità e le riforme imposte, che forse porteranno benefici nel lungo termine, hanno causato nell’immediato un blocco totale di una economia già lenta ed una riduzione imponente del PIL. L’Ue dovrebbe fare un mea culpa che difficilmente farà, l’aver protratto le misure di austerità ad oltranza ha fatto precipitare la Grecia in una spirale senza uscita, che ha portato il PIL ad appena 170 mld ed il debito a circa 320 miliardi. Ovviamente l’incidenza degli stipendi e pensioni, già tagliati in modo consistente come del resto la spesa, su un PIL così diminuito è cresciuta, ma se il PIL fosse rimasto ai livelli pre-crisi l’incidenza non sarebbe differente da quella presente in Italia.

Il rischio, in cui non si deve incappare ma probabile, è quello di una soluzione tampone, che prenderebbe la forma in un prestito ponte di 18 miliardi circa per consentire alla Grecia di avere risorse per altri 6 mesi, fino all’autunno 2015 per poi ridiscutere il tutto ed aprire un nuovo capitolo di una “tragedia” sena fine. L’ipotesi del prestito tampone potrebbe essere avvallata dalla situazione di tensione politica interna al Parlamento tedesco tra i coloro che vorrebbero dare concessioni alla Grecia e coloro che invece non vorrebbero concedere alcunché, ma soprattutto dalle preoccupazioni di Rajoy, diventato anch’egli un falco, che teme che ogni concessione alla Grecia possa essere utilizzata in campagna elettorale, in vista delle elezioni di autunno, dalla forza Podemos in rapida ascesa (notare gli esiti delle elezioni cittadine di Madrid e Barcellona).

In questo momento pensare che a fine anno si ripresentino i medesimi problemi irrisolti in 4 anni di crisi è quanto di peggio si possa prospettare. É arrivata l’ora di una soluzione che sia definitiva, l’austerità, mi ripeto per l’ennesima volta, andava utilizzata al momento di decidere chi fare entrare o meno nel progetto europeo e la Grecia, con i conti truccati di cui tutti erano a conoscenza, probabilmente non lo avrebbe meritato. Ora non è tempo dell’austerità ad oltranza, nè del timore di creare un precedente, emblema di debolezza dell’Unione, che consisterebbe, a detta dell’ex Troika, nel salvataggio di Atene. In questo frangente, la maggior dimostrazione di forza dell’Unione sarebbe quella di prendersi carico del problema greco in modo collettivo, con una cooperazione al quale ogni stato membro deve compartecipare in base alla propria dimensione economica. Un approccio solidale nel salvataggio ed al contempo rigido nel controllare che le riforme promesse ed i piani, condivisi tra Istituzioni UE e Governo di Atene, vengano messi in atto correttamente e proficuamente. Purtroppo però un approccio simile, da usarsi tanto per la questione di Atene quanto per gli altri diffusi problemi, ad iniziare da immigrazione e tensioni geo-politiche, pare ancora molto lontano dal poter essere messo in atto (per la delusione di Prodi e dei padri fondatori). Anzi, ad essere schietti, viste le tendenze ai particolarismi ed alla protezione degli interessi nazionali che ciascun Stato cerca di mantenerne mostrando egoismo, e scarsa lungimiranza o, che è peggio, disinteresse per il futuro economico europeo e del proprio Stato, non sembra neppure che vi sia intenzione di applicarlo.

22/06/2015
Valentino Angeletti
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Il ritorno di Renzi alle origini, ma in un contesto ben diverso

Lo aveva detto che sarebbe tornato quello delle origini, e, mantenendo fede alle proprie parole, il Premier Renzi, non ha perso tempo a dimostrarlo. Lo ha fatto lanciando una sorta di ultimatum, un messaggio dei suoi, sottintendendo un concetto molto simile al seguente:

O si fa come dico io, o, per colpa altrui e nelle fattispecie di coloro che mi si oppongono, a qualcuno non si potrà conferire quanto promesso“.

Il tema scelto da Renzi per il suo ritorno alle origini di “rottamatore” risoluto, deciso e non incline al confronto, perché dal suo punto di vista in Italia ci sono stati troppi confronti e poche decisioni (in realtà il problema spesso sono state le decisioni sbagliate che di norma senza confronto sono ancora più probabili), è stato la “Buonascuola”. Coloro che si oppongono sono le minoranze Dem del PD e le opposizioni, sia di governo che propriamente di opposizione. Il generico qualcuno i sono 100’000 precari che in teoria dovrebbero essere assunti a settembre.  I 3’000 emendamenti al seguito della riforma impedirebbero di portare a compimento le 100’000 assunzioni di precari della scuola (inizialmente oltre 140’000 poi ridotti di 40’000 unità) a settembre, ossia entro l’inizio del venturo anno scolastico. I tempi per riuscire nell’intento sono molto stretti, gli emendamenti dovrebbero essere discussi entro giugno e se rimanessero 3’000 sarebbe impossibile portare a compimento l’operazione. Poco dopo le prime dichiarazioni, Renzi ha poi abbassato un poco i toni ed a dire il vero anche gli “avversari” si sono detti disposti a soluzioni alternative, parziali e temporanee per avviare il processo di assunzione. UN cenno di apertura in ogni caso apostrofato dal Premir con la consueta locuzione:

Si discute, ma poi si decide“.

In tutta la discussione, che a mio avviso troverà una soluzione anche se il rischio di “raffazzonamenti posticci” è alto, pare ci si stia dimenticando che sussiste una sentenza Europea, la quale impone l’assunzione dei precari della scuola. Quindi non è nessuna concessione particolare da parte di chicchessia, bensì trattasi, esecutivo o non esecutivo, di dare attuazione ad una decisione precisa e vincolante, proferita da un tribunale europeo, quindi non c’è margine di decisione: le assunzioni vanno fatte.

Il concetto più generico che questa vicenda lascia evincere, è la volontà di Renzi di tornare forte e decisionista, agire come “una ruspa” (così di moda in questi mesi), avanzare dritto come un treno senza subire rallentamenti e senza che nessuno si frapponga o rallenti i suoi obiettivi. Vorrebbe tornare quello delle origini, del 40.8% delle Europee, quello del programma dei 100 giorni (che diventarono 1000 nel giro di pochissimo tempo), quello di una riforma al mese per completare tre grandi riforme in 3 mesi (ancora in fieri).

Le cose poi sono mutate, si sono mostrate più complesse del previsto e tante promesse fatte dal Premier, o perché eccessivamente velleitarie o per motivi contingenti, ascrivibili a volte all’azione di governo, altre volte al complesso contesto economico-sociale circostante probabilmente da più parti sottovalutato, non sono state portate a compimento, oppure sono rimaste parziali, o ancora non sono prossime alla reale attuazione, in ogni caso il bombardamento comunicativo di Renzi, a dire il vero adesso un po’ rallentato, è stato poderoso, ma dall’efficacia decrescente col passare dei giorni. La diminuzione d’effetto è dovuta al fatto che Renzi, entrato nei palazzi romani, pare aver perso il contatto con la realtà, con le piazze, coi comuni (che tanto per i suoi trascorsi da sindaco rammenta), con la popolazione, unitamente ai complessi meccanismi della capitale, la cui forza, Renzi, non aveva ben chiara. Questa lontananza, il minor impegno per affrontare temi terra a terra, sacrificati ad un approccio più politico e “palazzocentrico”, ha fatto sì che la popolazione perdesse fiducia in Renzi, non credesse più alle sue promesse, orientandosi verso coloro, vedi Lega e M5S, che pure condividono, amplificandola, estremizzandola ed arricchendola con propri obiettivi più o meno condivisibili, quella che inizialmente era anche la metodologia “Renzi” di stare a diretto contatto con le piazze.

Inoltre i delusi di CDX, che in tanti hanno sostenuto Renzi e su cui il premier ha puntato più che sulla sinistra, della quale avrebbe voluto fare a meno e dalla quale avrebbe voluto svincolarsi, sono tornati ad orientarsi verso partiti più canonicamente di CDX, nonostante la persistente debolezza di questo conglomerato politico. Significativo è il fatto che sia bastata una riunificazione tra FI e Lega ed una persona di medio carisma e noto al pubblico, come Toti, che, in Liguria, il CDX ha sbaragliato il PD e non certo per colpa dal divisionario e civatiano Pastorino.

La mossa di Renzi di tornare 1.0, alla luce del modificato scenario, può addirittura essere controproducente per il Premier, che rischia di risultare, all’elettorato già molto nervoso per una situazione economica e di benessere che non migliora nella praticità della vita quotidiana, oltre che inefficace e troppo incline a promesse non mantenibili, anche antipatico, superbo ed indisponente.

Le persone hanno una mutata percezione dell’operato dell’Esecutivo e dello stesso Renzi che quando fu nominato dal Presidente della Repubblica, in sostituzione a Letta Enrico, era sconosciuto al panorama politico nazionale, pareva davvero essere un volto nuovo, col piglio giusto per avviare un radicale cambiamento e finalmente scardinare i meccanismi incrostati caratteristici della nostra Italia, che però sono ancora, fino a prova contraria, incastonati nei loro confortevoli scranni.

Anche Renzi ormai è collocato tra i politici navigati e parte del sistema, lui con le sue prime linee. Questo è un dato di fatto, quindi di ciò il Premier deve prendere atto e, come ha capito e come si vede dalle sue azioni di riavvicinamento a sinistra, deve cercare in questo frangente di mantenere più lontane possibili le elezioni, sempre più incerte. Sarà cruciale vedere come verranno gestite le questioni Romane e Campane, così come l’evoluzione della materie economica che non è connessa solo ed esclusivamente all’Italia ed al Premier, ma legata a doppio giro ad Europa, Russia e Grecia.

Matteo Renzi vorrebbe fare un passo indietro e tornare “quello di una volta”, ma deve guardarsi dall’adagio secondo cui le minestre riscaldate il più delle volte non piacciono, soprattutto se sono pesantemente cambiati i gusti alimentari dei commensali.

Lo scenario si fa sempre più fluido ed incerto, non rimane che stare alla finestra: ogni pronostico è azzardato.

Valentino Angeletti
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Italia a crescita demografica zero: il contributo dei flussi migratori alla sostenibilità economica

A volte quando si parla di immigrazione, ovviamente quella regolare, come una opportunità, e di più, come una necessità per il paese, si è accusati di eccessivo buonismo, di non voler tutelare prima i connazionali rispetto agli “extracomunitari” e di non comprendere come l’Italia non sia in grado di dar sostentamento ai propri cittadini nativi e contemporaneamente ai migranti. Le accuse si fanno più aspre e velenose soprattutto in questo periodo in cui i flussi migratori rappresentano un gravissimo problema, esasperato da situazioni drammatiche presso i paesi di origine dei migranti, dalla stagionalità, dall’incapacità e dalle scarse forze italiane nel fronteggiare l’enormità del flusso, ed ancor di più dell’insofferenza, apatia, farraginosità dell’Europa nel rispondere ad un dramma che dovrebbe vedere l’UE in prima fila, attorno ad un tavolo assieme alle altre istituzioni umanitarie e governative mondiali a regolare un fenomeno che, dura veritas sed veritas, sarà sempre più incisivo e poderoso nelle dinamiche che animeranno gli scenari globali, economici e sociali prossimi venturi.

Ma è davvero il buonismo e l’umana pietas, di cui pare esserci sempre più penuria, per coloro che si trovano in condizioni più disagiate e meno fortunate rispetto a noi, a guidare tale affermazione? No, sono anzi dati oggettivi.

L’Istat ha certificato che nel 2014 la crescita demografica è stata sostanzialmente zero. Il numero di cittadini italiani ammonta complessivamente a 60’795’612, +12’944 unità rispetto all’anno precedente, incremento dovuto principalmente alle revisioni anagrafiche  (aggiornamento irreperibili, re-iscrizioni di cancellati, ecc) epurato da questo fenomeno la crescita si ferma a 2’075 unità dovute totalmente alle migrazioni. Il saldo “nascite – decessi” è negativo per 100’000 unità e rappresenta il peggior dato dalla prima guerra mondiale, dove ovviamente il conflitto ha inciso non poco (quando si dice che questo scenario economico e sociale è da guerra non si fa eccessiva forzatura). Gli italiani nati in Italia  diminuiscono di 83’616, ma salgono di 130’000 se si considerano gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza. Un effetto palese è la deriva verso un aumento dell’età media, che ha raggiunto i 45 anni e che continuerà la sua ascesa.

Il fatto che gli italiani da soli non riescano a dare sprint alla crescita demografica è noto da tempo, ma fino ad ora questo fenomeno era stato bilanciato dall’effetto delle migrazioni e dalla maggiore propensione dei migranti a dar luce a nuova prole. Evidentemente la situazione economica drammatica spinge gli immigrati e fare meno figli, ed addirittura a cercare di uscire dal nostro paese col risultato che non si riesce più a sopperire al calo demografico imputabile a noi italiani.

L’importanza di una popolazione in crescita, dinamica e giovane è fondamentale per il progresso economico, perché costoro sono le persone che maggiorente danno contributo alle attività produttive, si inventano nuovi lavori ed imprese, possono sopperire alla richiesta di manodopera più o meno specializzata, si istruiscono, entrano in contatto con nuove tecnologie ed, in riferimento agli immigrati, spesso riempiono lacune nel mercato del lavoro per quelle occupazioni che gli italiani, dotati di titoli di studio elevati ma spesso poco funzionali per via della distanza tra scuola ed università rispetto al contesto lavorativo, non si sentono più di voler fare, ad esempio i cosiddetti mestieri.

Al sostegno della crescita economica che richiede indubbiamente gioventù forte, istruita, dinamica, flessibile, digitalizzata e via dicendo, si aggiunge anche il minor costo della popolazione giovane ed attiva che mediamente si ammala meno, ha meno necessità di welfare e di sostegno pubblico rispetto alle persone più avanzate con l’età; Inoltre il costo del lavoro per le persone più giovani, a prescindere dalle varie riforme in corso od in essere, è inferiore. Tale circostanza, in un paese che ha un bilancio statale a dir poco complesso e non riesce per colpevolezze politiche, nonostante i decennali tentativi di spending review ed il susseguirsi di commissari speciali, a tagliare la spesa pubblica, è un fattore non di poco conto. Ricordiamo che è stato appena raggiunto il nuovo record di debito pubblico a quasi 2’200 miliardi, benché abbia ragione Padoan quando afferma che il debito cresce fisiologicamente ed è al Pil che s’ha da rapportare, va però precisato, riportando il Ministro coi piedi a terra, che con i tassi attuali di crescita del Pil, considerando le stime più ottimistiche, anche il significativo rapporto Debito/Pil è destinato a crescere. In tale dinamica una demografia favorevole contribuirebbe a mantenere inferiore la spesa, quindi il debito, ed avrebbe le potenzialità, se presente un contesto economico giusto, per alzare il Pil: un doppio beneficio di cui l’Italia avrebbe bisogno, ma del quale deve fare a meno.

Vi è un altro aspetto da considerare, ed ha carattere prioritario, che è quello della previdenza pensionistica. Avere una popolazione giovane, che lavora e che, con i meccanismi ancora parzialmente in essere, paga le pensioni ai ritirati dal lavoro, è indispensabile per la sostenibilità del bilancio pensionistico. Si sente sempre più spesso parlare di riforme che vorrebbero portare al contribuitivo totale e ciò in linea teorica è corretto e tecnicamente impeccabile per la sostenibilità di bilancio, ma va detto che, per come sono conformati gli stipendi italiani, ciò vuol dire lavorare fino a circa 10 anni dall’età media di aspettativa di vita (un po’ di più per le donne), “godersi” una pensione (o meritato riposo) brevissima ed avere corrisposta una somma spesso insufficiente per un sostentamento dignitoso (almeno ad oggi è così, altro che godersi il dolce far nulla o cirare i propri interessi, si dovrà lottare per la sussistenza). Potendo quindi contare su lavoratori giovani in grado di accollarsi parte della spesa previdenziale sapendo che poi dai giovani futuri questo favore, o patto generazionale, gli verrà restituito, sarebbe di grande importanza anche per il benessere sociale, senza voler regalare nulla a nessuno. Ovviamente tutto è legato a doppio giro alla necessità di una crescita demografica costante ed alla presenza di sufficienti posti di lavoro, cosa non scontata ed a maggior ragione in un paese bloccato come l’Italia.

Stime dello stesso Istituto di Previdenza Sociale affermano che, se non vi sarà una ripresa ragionevolmente corposa e non è prevista nell’immediato, le casse dell’INPS passeranno dall’attuale attivo di 18.5 miliardi, nonostante alcuni buchi ascrivibili a gestioni separate come certi fondi, ex istituti dipendenti pubblici e dirigenti d’azienda, ad un rosso di 56 miliardi nel 2023: impensabile.

Risulta doveroso precisare che la tendenza al calo demografico per quel che concerne la popolazione “autoctona” è comune a molti Stati industrializzati e sviluppati, soprattutto del nord europa, ma in tal caso la tendenza è mitigata da politiche ed incentivi in favore delle nascite, che gli italiani possono solo sognare, ad un maggior bilanciamento lavoro – vita privata e famigliare, ad un capillare reticolo di asili anche aziendali, a veri contribuiti economici finanche alla maggiore età e finalizzati persiano allo studio. Senza volersi spingere ai campioni nordici come Finlandia, Svezia o Olanda, basta scavalcare le Alpi e prendere come esempio la Francia, termine di paragone più prossimo a noi a dai dati economici che secondo alcuni economisti sarebbero addirittura peggiori di quelli nostrani. Se queste politiche, magari appena dispendiose nell’immediato, ma che si ripagano gratuitamente nel medio-lungo periodo, non dovessero essere sufficienti, ecco che entra in gioco il fattore migrazione, e le relative politiche di integrazione e regolarizzazione, che bilancia una situazione altrimenti incompatibile con crescita economica, benessere, sviluppo e progresso strutturali.

Ecco spiegato dunque un altro motivo per il quale bisogna repentinamente prendere in carico il problema dei flussi migratori. Motivazione forse più veniale rispetto al soccorso di vite umane ed al contenimento di situazioni al limite della decenza che ci si presentano dinnanzi in questi giorni, ma sicuramente di importanza non trascurabile se si ha in mente il progetto di un paese vivibile, accogliente, dinamico e competitivo.

La politica, soprattutto quella che fa leva sulla paura del diverso ed in particolare in situazioni di difficoltà sociale diffusa, sarebbe bene che ragionasse anche in questi termini, e sarebbe bene che lo facesse, ancor prima della politica quasi sempre capziosa ed in cerca di facile consenso, l’elettorato che, in quanto umano, dovrebbe essere in grado di pensare e scegliere, senza farsi influenzare da soluzioni e ragionamenti troppo semplicistici.

Valentino Angeletti
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Renzi ed UE: mala tempora currunt

Sono molte le vicende economiche e politiche, sia di livello nazionale che di stampo europeo, che negli ultimi mesi si stanno susseguendo freneticamente. Ognuna ha una sua importanza e per la propria delicatezza rappresenta senza dubbio una spina nel fianco per il Governo, non nello specifico per l’Esecutivo Renzi, lo sarebbe parimenti per ogni altro Esecutivo, ma la fase politica vede il fiorentino alla presidenza del Consiglio e pertanto egli deve subissarsi onori ed oneri della leadership.

Oggi intanto è il giorno dei ballottaggi per le comunali in diverse città. La più importante è senza dubbio Venezia, dove parte favorito dai risultati della prima tornata il candidato PD, ma della minoranza Dem, Casson. L’avversario, delle file del centrodestra, che però di dice nè di destra nè di sinistra, Brugnaro, è comunque ostico e molte autorevoli voci lo darebbero avvantaggiato per la vittoria finale. Venezia è un buon terreno per Renzi, in caso di vittoria di Casson potrebbe annoverare un successo del PD, in caso di sconfitta invece potrebbe addossare la colpa alla minoranza Dem, che secondo il Premier ha di fatto consegnato la Liguria a Toti. La partita di Venezia vede quindi Renzi dalla “parte dei bottoni”, ma sono molte altre le questioni che Renzi deve fronteggiare.

Sempre più sovente si sentono ricordare, in particolare da parte degli oppositori politici, iniziando da Brunetta e proseguendo con il M5S, le elezioni anticipate, che invece per il Premier e per il PD rimangono fissate, come da programma, nel 2018. Se fino a qualche mese fa poteva essere gioco per Renzi, privo di avversari, correre alle urne e legittimare ulteriormente la sua posizione, avendo poi modo di porre nelle posizioni di comando, attualmente coperte da “altri”, esponenti appartenenti al suo “giglio magico”, ora lo scenario è cambiato ed anticipare le urne potrebbe essere un ritorno brusco alla realtà per il PD renziano. Il cambio di scenario è da tempo evidente per logica e ad intelletti mediamente fini, ma non ancora comprovato da fatti oggettivi come potrebbero essere le elezioni politiche nazionali (seppure le regionali qualche importante segnale lo hanno dato).

Il Premier ha molti problemi da fronteggiare, non tutti dovuti a lui, al suo Esecutivo o operato. Alcuni sono dovuti a circostanze economiche mondiali, come la crisi greca (Link 1Link 2 – Link 3) che, esacerbata oltremodo con una cocciutaggine da parte delle istituzione UE che richiederebbe un risarcimento danni e sicuramente ha fatto trasalire i Padri Fondatori del progetto comunitario ovunque, ora, nel loro meritato riposo, si stiano trovando, sta rischiando, e le istituzioni USA sono le prime, immediatamente seguite dalle agenzie di rating, a mettere in guardia dal concreto pericolo nonostante le rassicurazioni della BCE, di minare l’economia e la ripresa mondiale, aprendo i cancelli ad una nuova tempesta degli spead, a scenari speculativi ed a mercati tesi e volatili dominati dall’incertezza tanto odiata dai veri investitori quanto amata dagli speculatori.

Altri elementi di pericolo per Renzi sono dovuti ad un cambio delle dinamiche mondiali, di cui possiamo solo prendere atto e che dobbiamo imparare a gestire diversamente da quanto fatto fino ad ora. L’evidente riferimento è ai flussi migratori abnormi, che vedono l’Italia e la Grecia fisiologicamente in prima linea. Alle spalle c’è una Europa ancora una volta inconsistente e ed egoista i cui stati, proteggendosi dietro i trattati di Dublino, hanno ripudiato il piano Juncker di allocazione di quote per i vari pesi membri, con il contemporaneo blocco di Shengen da parte di Francia, Germania ed Austria, proprio, ironia della sorte, nell’anno dell’anniversario del trattato. Risultato di tutto ciò, sono le frontiere bloccate ed il nostro paese inerme ed incapace di gestire questo flusso umano stipato, come uomini non dovrebbero esser degni d’esserlo, i locazioni di fortuna. La soluzione, a parte la ridicola e neppur simbolica cifra di 60 milioni di euro allocata pro Italia e Grecia da parte dell’UE, dovrebbe essere una maggior cooperazione nei rimpatri ed interventi volti a contenere le migrazioni nei paesi d’origini. In realtà di disastri e di vite stroncate in mare, nel corso di questi anni se ne sono avuti a non finire, ma nulla è cambiato, anzi le cose sono addirittura peggiorate (proprio come per la crisi Greca).

Vi son o poi le question interne. Le ultime elezioni regionali hanno mostrato un PD in declino ed una immagine di Renzi in ribasso. Le vittorie in Campania e Puglia non sono state ad appannaggio di esponenti democratici renziani, anzi i vincitori sono membri della vecchia guardia che poco avevano a che spartire con Renzi fino a qualche settimana fa. In Campania poi andrà sbrogliata la questione della “impresentabilità” di De Luca e quella della legge Severino. Indubbio è che, qualunque sarà l’epilogo, avranno gioco facile gli oppositori di Renzi a trovare argomenti per cercare di screditarlo. Gli esponenti renziani, Paita e Moretti, sono invece stati sconfitti pesantemente in Liguria ed in Veneto, dove hanno vinto rispettivamente Toti, con l’alleanza di centrodestra e grazie al contributo leghista, e Zaia, esponente leghista ed uscente governatore del Veneto. L’evidenza è che, complice anche il problema dei migranti, la Lega al nord ha un gran seguito ed un centrodestra, seppur poco feroce ed incapace di organizzarsi in modo concreto per gareggiare a livello nazionale, può già, se unito e con un personaggio che lo rappresenti di carisma medio come può essere l’ “innocente” Toti, mettere in difficoltà e sottrarre consensi al Premier.

Infine vi è la vicenda romana di Mafia Capitale, vero dramma per il Governo, anche se evidentemente il reticolo di malaffare non può essere che radicato ed ereditato dagli anni addietro. Marino si è trovato in mezzo alla bufera, forse è stato incapace di fronteggiarla, ma di certo non l’ha generata. Sono molte le richieste di nuove elezioni sia nella capitale che in regione Lazio, in tal caso il problema sarebbe duplice: il PD si vedrebbe a tutti gli effetti commissariato; i sondaggi danno la popolarità del Premier, nonostante l’operazione di ripulitura del Partito Democratico e la chiusura di numerosi circoli, in caduta libera sotto al 20% con il M5S oltre il 30% e primo partito secondo i sondaggi. Riconquistare il Campidoglio per il PD sarebbe sostanzialmente impossibile in caso di prossime comunali o regionali. Per tale ragione è stato molto ben accetto l’affiancamento a Marino del commissario Gabrielli per gestire l’evento Giubileo (un affiancamento è comunque segno di fiducia nei confronti di Marino). Nonostante ciò, le ipotesi commissariamento ed eventualmente elezioni, non sono ancora del tutto scongiurate. Nel qual caso la più che probabile sconfitta del PD aprirebbe davvero i ranghi per elezioni nazionali anticipate.

A corollario di questo intrigato scenario, si collocano dati economici oscillanti e che ancora non sono significativi di una ripresa in partenza, così come la percezione della cittadinanza non è quella di essere alla porte di un periodo di rinascita economica, di maggior potere d’acquisto, di più consistenti consumi e maggior benessere. Pur nella difficoltà, le riforme economiche sono ancora lente ad essere attuate ed ancor di più a portare frutti, spesso inoltre, e ciò la “gente” lo ha inteso e compreso, sacrificate ad altre riforme di minor impatto sulla collettività e sulla ripresa economica, ma di maggior interesse per i diretti coinvolti nella politica.

Se fosse vivo un Cicerone qualunque non tarderebbe di ricordare a Renzi ed all’UE, sperando di spronarli, che “Mala tempora currunt….”

 

14/06/2015
Valentino Angeletti
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Crisi Greca: scadenza vicina, soluzione lontana. Flussi migratori ed economia: i fallimenti del progetto UE

La fine di giugno si avvicina e giovedì 18 è prevista la riunione dei Ministri delle finanze UE che metteranno al centro dei lavori soprattutto la crisi greca sulla quale gli sherpa dei paesi membri, e non solo, stanno lavorando da tempo alacremente.

Nonostante la consueta sicurezza manifestata da Tsipras, il quale ritiene che una soluzione non sia mai stata così vicina, e le tranquillizzazioni del ministro dell’economia ellenico Varoufakis, secondo il quale la Grecia non sta affatto giocando d’azzardo, come invece l’accuserebbero di fare i creditori, la conclusione di questo tira e molla esacerbato sembra ben lungi dall’essere trovata. O meglio, la conclusione per forza di cose si avvicina con l’incedere di giugno, a meno di ulteriori rinvii dei pagamenti che comunque sarebbero emblematici di una volontà dei creditori di mantenere la Grecia all’interno dell’Euro e che permetterebbero ad Atene di proseguire nel fare gioco duro e mantenere salde alcune posizioni su cui non intende cedere. A fine giugno scade il programma di aiuti alla Grecia il quale dovrebbe essere rifinanziato per un ammontare di circa 7.2 miliardi, necessari come l’ossigeno alle casse ormai a secco del paese ellenico, ma a fine giugno scade anche una pesante trance di debito da 1.6 miliardi che, dopo aver aggregato più dilazioni di pagamento come solo negli anni 70 allo Zimbabwe fu concesso, il paese di Tsipras deve corrispondere all’FMI. Senza saldo non saranno concessi aiuti, questa è la linea generale che il Brussels Group ha fino ad oggi indicato di voler seguire.

In contrapposizione all’ottimismo greco, che misto ad un po’ di sfacciataggine, non ha mai abbandonato la coppia Tsipras – Varoufakis, vi è il pragmatismo e l’evidente seccatura da parte dell’FMI, che giovedì scorso non ha disdegnato di lasciare i tavoli delle trattativi per tornare a Washington, asserendo che non era stato concluso nulla e che lo stallo era tale da non lasciare presagire soluzioni nel breve termine. Due modi differenti, quello di Tsipras e quello dell’FMI, di trattare la medesima questione, da una parte il debitore senza denari, che deve mantenere in patria il consenso in calo e non ha nulla da perdere, dall’altra il creditore, indignato per il vedere sempre più concreta l’ipotesi di non riacquisire il proprio capitale.

Il nodo delle discordie rimane sempre il piano di riforme che il Brussels Group vorrebbe imporre alla Grecia, dall’altro quello di Tsipras, che, già accusato in Grecia di essere troppo morbido e flessibile, in UE non vuole cedere su alcuni punti cardine, proprio quelli fondamentali secondo l’ex Troika.

Al centro di tutto vi è principalmente la revisione delle aliquote IVA che Tsipras sarebbe disposto a rivedere, ma in misura minore rispetto a quanto chiesto dai creditori, analogamente per l’avanzo primario, molto più lento il percorso di rientro proposto dal leader ellenico rispetto a quanto richiesto dal Brussels Group. Inoltre Atene non ha assoluta intenzione di inserire gli altri elementi da austerità richiesta dai creditori, come i tagli agli stipendi pubblici, alle pensioni, una grande riforma dell’età pensionabile con un sostanziale innalzamento dell’età pensionabile a fronte di meccanismi di prepensionamenti quantomeno generosi in vigore solo fino a poco tempo fa. Sciogliere questi nodi non è affatto facile e se da un lato è comprensibile come Tsipras, senza nulla da perdere e criticato in patria possa tirare la corda, dall’altra l’indignazione dei creditori potrebbe portare a spezzare quella corda messa oltremodo in tensione dai due negoziatori.

Tra l’altro una sentenza della Corte Costituzionale ellenica imporrebbe al governo di Atene il rimborso ai pensionati di tagli non dovuti, un po’ come è accaduto in Italia, per un controvalore di 1.6 miliardi e tutto ciò contemporaneamente alla riapertura, mossa sicuramente poco gradita all’UE, dopo due anni di schermi bui, dell’emittente televisiva pubblica greca ERT.

Il tempo sicuramente stringe e, viste le richieste di trovare una rapida soluzione da parte degli USA, della FED, di Obama, considerate le tensioni sui mercati, gli spread in salita e le intimazioni delle agenzie di rating secondo cui perseverando in tal modo Atene fallirà nel girio di un anno, anche la Merkel ha allentato la morsa, deviando dalla posizione di Schauble e Bundesbank, ed andando a richiedere ad Atene nell’immediato una singola tra le riforme richieste dai creditori in cambio dell’allungamento del piano di aiuti, mediazione subito ripudiata dal Brussels Group che di fatto hanno “messo in minoranza” il Cancelliere tedesco che ormai pare sempre più muovere verso approcci a politiche monetarie accomodanti (alla buon ora), contrariamente alla linea della banca centrale tedesca che rimane ferrea ed austera.

Inutile ribadire come la vicenda sia intrigata e, nonostante le sole due settimane alla scadenza dei prestiti e per il rimborso (anche se motivi tecnici per consentire l’avvio del nuovo piano di aiuti necessitano di una decisione entro il 18), lontana dalla soluzione. Pertanto è chiaro che, tralasciando le doverose smentite del caso, ogni paese, istituto di credito, istituzione, agenzia di rating, stia simulando scenari e pianificando strategie per una uscita della Grecia dall’Euro (ipotesi che rimane complessa a mio avviso) e per un (ben più probabile) fallimento, concordato o meno, di Atene. Il debito di Atene attualmente ammonta a 320 miliardi, il 177% del PIL, ben poca cosa se si paragona agli aiuti dati durante questi anni di crisi alle banche. Scenari di uscita di Atene dall’Euro o di un default ellenico, nonostante la BCE abbia fatto sforzi per assicurare che non avranno impatto, sono a tutti gli effetti terreni ignoti, inesplorati e potenzialmente destabilizzanti per l’economia di tutto il globo. Di ciò, man mano che scorre il tempo, pare prenderne atto anche la Commissione UE ed infatti il presidente Juncker ha chiaramente detto che una GrExit getterebbe l’economia mondiale in una situazione complessa, sconosciuta e dall’impatto potenzialmente devastante.

Come abbiamo più volte detto in questa sede, l’aver esacerbato oltremodo la situazione ellenica richiedendo una austerità insostenibile per tutta l’Europa, Italia inclusa, l’aver imposto vincoli e parametri che da tempo, ancor prima di Renzi, definiamo anacronistici (come il 3% sul deficit/PIL in periodi che, gli USA insegnano, necessitano di investimenti ingenti, strategici e mirati per far ripartire l’economia). Se mai, l’austerità sarebbe stata utile al momento di fare entrare i vari paesi nel progetto europeo. All’epoca tutti sapevano, ed è anche il professor Prodi ad averlo affermato, che Atene non aveva i conti in ordine, quello era il momento di essere austeri e non questo. Invece all’epoca si fu, neppure flessibili, ma fintamente ciechi, azzardati e scellerati, ed ora si richiede un’austerità evidentemente inapplicabile ed insostenibile e ciò vale per Grecia, ma anche per Italia, Portogallo, Spagna che pure hanno valori ed indici decisamente migliori, ma per  crescita economica ed occupazionale sostenibile e strutturale nel lungo periodo servirebbe un ben altro modo di agire assieme ad un rinnovato paradigma economico. Ogni giorno che passa invece ci si può rendere conto di come non sia il progetto europea ad essere protetto, bensì gli interessi particolari, ad iniziare da quelli degli stati più forti, più presenti in percentuale nelle istituzione (Germania in BCE ad esempio), che possono permettersi quindi di dettar legge.

Chiaro è che un simile approccio, protratto e tuttora essere nonostante l’evidente inefficacia, stia conducendo alla fine del progetto europeo dei padri fondatori: l’UE della protezione, prosperità e pace (delle tre P) per tutti e dove tutti cedono un po’ sovranità per il bene condiviso, si accollano rischi comuni per un beneficio diffuso. Progetto originario sacrificato sull’altare degli egoismi, e dei nazionalismi che in un contesto globale significano, per i paesi più deboli prima e per quelli più forti poi, perire sotto i colpi della concorrenza di colossi inarrivabili, che studiano, lavorano, producono più di noi e sovente costano molto meno.

Ancor prima che nel caso greco, nelle vicende economiche come unione bancaria, energetica, mercato unico dell’energia, politica monetaria, piano di investimenti Juncker, abbozzati ma mai conclusi e ne portatori di un qualche vantaggio, la tendenza alla disgregazione si è vista nelle questioni geopolitiche come la crisi ucraina, libica, la lotta la terrorismo, e nella farraginosa gestione dei flussi migratorio.

L’immigrazione è un altro grande emblema del fallimento europeo. Solo pochi giorni dopo l’accettazione del “piano Juncker” di redistribuzione di quote di immigrati per paesi UE, al momento di ricevere i migranti, esso è stato disdetto e sciolto perché tutti gli Stati, inclusi Germania, Francia, Austria e Spagna, che pure avevano siglato l’accordo (non come UK e Danimarca per le quali sono previste clausole), si sono rifiutati di accettare le loro quote. Francia, Germania ed Austria hanno letteralmente chiuso i propri confini sospendendo Shenghen. Adesso pare che la soluzione verso la quale convergere siano i rimpatri forzati e, come di consueto soluzione tardiva ma fin da subito evidentemente l’unica davvero possibile per combattere in modo strutturale una piaga assolutamente complessa, il supporto ai paesi di partenza e di appartenenza dei migranti. Lo stanziamento in favore del problema dei migranti da parte dell’UE, dovrebbe ammontare alla cifra, quasi ridicola, di 60 milioni di Euro. Come tante volte abbiamo sentito ripetere, e stavolta è il Ministro degli Esteri Gentiloni a ribadirlo, questa soluzione non è sufficiente ma è un buon inizio, peccato che poi l’inizio, spesso e volentieri, sia coinciso con la fine stessa di un qualsivoglia provvedimento.

Se per le questioni economiche, in fondo, si tratta di, seppur difficili e drammatiche, perdite in denaro (ma anche in benessere e stato sociale dei cittadini), con i flussi migratori le perdite in gioco sono migliaia e migliaia di vite umane, ma ciò non è fino ad oggi bastato per dettare una linea ed una strategia comune a livello europeo.

Mi spiace, da europeista convito quale tutt’ora sono, doverlo ammettere, ma siamo davvero ad un passo d’infante dal tracollo e dal fallimento europeo delle tre P. Ed ancor prima che per la prima volta uno Stato, forse la Grecia che diventerebbe il capro espiatorio di una colpa non totalmente sua, abbandoni la moneta unica.

Questo blog, forse alle sue ultime battute, ha trattato temi di politica italiana ed internazionale, geopolitica, argomenti legati all’energia, economia nazionale ed internazionale e molto spesso temi europei. Riguardo a questi ultimi, è davvero deludente, per una persona che pensa che l’Europa sia l’unica soluzione per consentire la competitività dei nostri paesi che presi singolarmente sono dei piccoli Davide nella terra dei Golia, senza però possibilità alcuna di un epilogo biblico, notare costantemente che a seguire i tanti meeting, summit, conferenze convention, vertici, bi e tri laterali, forum e consessi dove si proferiscono belle parole e si propongono sensati propositi, non si dia il là ad alcun intervento concretamente risolutivo i tanti problemi, qui di volta in volta trattati e che di fatto, dall’apertura circa tre anni or sono di questo spazio virtuale infimo e senza pretesa nè velleità alcuna, sono ancora tutti lì, senza sostanziali progressi.

13/06/2015
Valentino Angeletti
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Direzione PD e la resa dei conti che Renzi vorrebbe assolutamente evitare

Sarà dunque fissata per lunedì sera, ore 21, presso la sede romana del PD la resa dei conti interna al partito democratico? Assecondando le notizie riportate dalle fonti mediatiche negli ultimi giorni, tutto farebbe pensare che quella sarà proprio l’occasione giusta per avviare il processo di “resa dei conti”, tante volte sbandierato da stampa, tv e talvolta anche dai diretti interessati, ma invero sempre rimandato.

Le questioni, che nel Partito Democratico dovranno affrontare, sono molte e complesse. Innanzi tutto dovranno essere analizzati i risultati delle ultime elezioni regionali e preparate le strategie per i complessi ballottaggi. Il 5 – 2 in favore del PD non può soddisfare il Premier Renzi, come non egli può ritenersi pienamente soddisfatto da ciò che è accaduto ai suoi candidati, Paita e Moretti, rispettivamente in Liguria e Veneto. Inoltre le vittorie in Puglia, Emiliano, e Campania, De Luca, non sono state ad appannaggio di membri, per così dire, del giglio renziano, anzi, essi possono decisamente annoverarsi nel vecchio corso, mai rottamato o sostituito come in partenza nelle mire dichiarate di Renzi.

In Campania poi si accavallano le questioni dell’impresentabilità, che ha sancito una profonda frattura nel partito e con la persona di Rosy Bindi, della legge Severino e di alleanze molto dubbie e tanto vituperate che di fatto hanno consentito a De Luca di ottenere qul 2% sufficiente a battere Caldoro.

Analizzati i risultati regionali, dovrà essere affrontato il problema di Mafia Capitale, brutto affair in cui oggettivamente il PD si trova invischiato. Il commissario PD Orfini, sostenendo che è con Marino che hanno cominciato ad emergere gli scandali, difende a spada tratta la Giunta PD e l’operato del sindaco, il quale sta valutando l’ipotesi di un rimpasto al Campidoglio. La vicenda però non è trascurabile, sia per le critiche, incluse le richieste di dimissioni sia per Marino che per Ringaretti, che provengono dai partiti avversari sia per l’immagine stessa del PD, secondo gli ultimi sondaggi in declino proprio come la popolarità del suo Segretario.

Con le vittorie in Puglia e Campania, con le vituperate alleanze, con la vicenda Marino e la connivenza trasversale tra politica (di qualsiasi colore) e malaffare, il percorso di Renzi sembra ben lontano da quell’effetto rottamazione, mutato in rinnovamento col passare delle settimane, che il Premier avrebbe voluto rapidamente dare, prima al PD, e poi alla politica in generale. Al momento l’impressione che i cittadini hanno, è il mantenimento dello status quo, forse in modo meno palese di prima, ma esattamente con lo stesso risultato e con gli stessi meccanismi di relazione. Forse con attori un poco mutati, ma egualmente influenti e potenti, non certo novizi nati ieri o prodigi che hanno spiccato il volo per le proprie capacità.

L’ultimo macro-argomento a dover essere discusso sarà quello delle riforme, ed in particolare quella della scuola che tanto ha agitato i sindacati, i professori e gli studenti, nonché la minoranza del PD. La Buona Scuola (il nome della riforma) passerà martedì 9 al voto parlamentare e dovrà essere conclusa in breve tempo per consentire le assunzioni e le regolarizzazioni dei precari previste. Il tema è molto caldo, in particolare riguardo ai poteri del dirigente scolastico, alle modalità di assunzione, ai fondi ed alle risorse economiche, alla regolarizzazione ed assunzione dei precari.

La minoranza DEM, in vista della direzione PD, pare sul piede di guerra, ma ancora ben lontana, e si parla di Fassina, Cuperlo, Bersani, Bindi, Gotor ecc, da compiere il passo “fatale” fatto da Cofferati, ed in modo più strutturato Civati, con la fondazione del suo partito “Possiamo”. L’ormai nota tendenza della minoranza DEM a parlare, anche in tono grave, senza però dare fattezza al verbo è in questo momento salvifica per il Premier, che da eccellente stratega si sta riposizionando alla luce degli ultimi fatti, e lo sta facendo comprendendo che in questa fase politica non ci sarebbe nulla di più deleterio per il Governo e per il PD targato Renzi di una scissione a sinistra che, seguendo una logica chiara, dovrebbe condurre all’ingresso pesante dei nomi sopracitati, con l’aggiunta di Cofferati, nel perimetro di Civati, col supporto di SEL e della “Coalizione Sociale” di Landini, senza dimenticare di strizzare l’occhio al M5S. Questo processo di aggregazione e di condivisione di un percorso chiaro è fondamentale per i fuoriusciti dal PD, se hanno davvero seria intenzione di creare qualche cosa che possa attingere da un bacino elettorale sufficientemente ampio. L’alternativa alla reunion delle sinistre sarà un ennesimo fuoco di paglia di pressoché nulla significatività.

Renzi ha compreso dalle ultime regionali, ed è per questo che farà di tutto per evitare la resa dei conti nel PD, che sta perdendo quel consenso di centrodestra su cui puntava inizialmente, essendo disposto a sacrificare voti di sinistra, per contare sulla maggioranza degli italiani che è appurato siano più orientati al centrodestra. Il Premier perde consenso a destra perché vi è una parvenza di riunificazione destrorsa. Lo si nota da quanto è accaduto in Liguria, dove il CDX unito ha vinto, pur non avendo un forte partito dominante a livello nazionale, senza un leader carismatico come invece è Renzi e ciò è significativo sulla tendenza di voto degli italiani. Riguardo ai temi lo si nota sulla questione degli immigrati, altro punto dolente che Renzi dovrà affrontare nella Direzione PD, rispetto alla quale l’abnorme dichiarazione, subito apostrofata come priva di fondamento sia dalla conferenza delle regioni sia da quella dei comuni rispettivamente dai rappresentanti Chaimaprino e Fassina, del Governatore Lombardo Maroni di tagliare i trasferimenti a quei comuni che si prestassero ad accettare nuovi immigrati, è stata condivisa da Toti, ovviamente dalla Lega, ed anche dai movimenti più spostati a destra. L’evidenza è che ormai la rottura Renzi – FI, sempre più nell’orbita leghista, è insanabile e quindi Renzi, anche in vista dei ballottaggi e, perché no, delle elezioni del 2018, ma chissà se non prima, si sta riposizionando cercando di recuperare la sinistra.

Il riposizionamento di Renzi passa innanzi tutto da un ammorbidimento sulle posizioni in merito alla riforma della scuola, nodo davvero dominante della direzione ed un nuovo approccio al confronto sindacale. I tempi rimangono stretti e la volontà quella di rispettarli, ma con la flessibilità di aprire, non solo all’ascolto, ma anche a modifiche, una volta impensabili da parte di un decisionista inamovibile come il Premier.

Sarà vero cambiamento o solo moda passeggera?

Valentino Angeletti
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Dati positivi, ma in uno scenario molto complesso ed incerto. Non si può perdere un’altra occasione

L’Italia sta decollando? Secondo il Premier Matteo Renzi sì, senza dubbio, si devono allacciare le cinture, e come al solito alla “facciccia” di coloro che vorrebbero che tutto andasse male (anche se è oggettivamente difficile capire perché qualche italiano dovrebbe volere che tutto andasse male). L’affermazione del Presidente del Consiglio è stata proferita, non a caso e con precisa dovizia di termini, di fronte a 1500 dipendenti Alitalia a Fiumicino, in occasione della presentazione della nuova livrea della compagnia aerea e di nuovi vettori. Sono state inoltre annunciate 310 assunzioni (o meglio riassunzioni e trasformazioni di contratto) a tempo indeterminato nei settori ground e manutenzione: nello specifico 115 stabilizzazioni da tempo determinato ad indeterminato e 55 riassunzioni tra lavoratori in mobilità nel ground e 140 riassunzioni dalla mobilità per la manutenzione.

Effettivamente non si può negare che segni di ripresa ci sono. Da tenere presente che, come fa notare il Presidente di Confidustria Squinzi, ma lo abbiamo ripetuto più e più volte anche in questa sede, essi si giovano principalmente delle congiunture macroeconomiche irripetibilmente favorevoli, i bassi tassi che favoriscono il credito, i (ritardatari) QE della BCE, un prezzo del greggio estremamente basso, un Euro debole che favorisce le esportazioni, ma nonostante tutto questo l’Italia rimane sempre il fanalino di coda rispetto agli altri stati europei come Germania, Francia, Spagna, UK. Premesso ciò vanno accolti positivamente, più che il dato sul PIL (da tenere presente l’inserimento anche di alcune attività illegali da Novembre 2014), quelli relativi; alla produzione industriale (+0.3% ad aprile e +0.1% a maggio trainato da manifatturiero); all’aumento degli investimenti (+2.5% nel Q1 2015 con previsione trend rialzista) in macchinari e mezzi; alla crescita dello 0.2% a marzo dei crediti alle imprese (dati CsC). A ciò si aggiunge anche il  calo di fallimenti del 2.8% nel Q1 2015 rispetto ai primi tre mesi del 2014. Infine, e questo è forse l’aspetto che più ha fatto gioire il Presidente Renzi, l’Istat ha confermato l’aumento di posti di lavoro, 159 mila occupati in più ad aprile, ed una diminuzione dei cosiddetti inattivi (NEET), che vanno ad incrementare il numero degli occupati. Aprile è stato il primo mese di pieno funzionamento del Jobs Act, ma è difficile pensare che nuovi occupati derivino direttamente dalla riforma del lavoro, ancora in fase di rodaggio, ben più probabile che essi siano frutto degli sgravi contributivi da tempo entrati in vigore (8 mila euro all’anno per 3 anni) e della trasformazione di alcuni contratti precari, benché l’utilizzo del part-time, soprattutto in estate, sia ancora la forma dominante, oltre che dalla propensione dei NEET, ossia coloro che neppure si impegnavano a cercare lavoro, i cosiddetti totalmente inattivi, a cercare un impiego nel periodo estivo dove le possibilità, in particolare nei settori dei servizi turistici e di ristorazione, sono maggiori.

Quando ci sono, è doveroso e corretto far presente i segni benefici che possono far ben sperare, ma considerando che allo stato attuale dell’economia italiana gli zero virgola non sono sufficienti e considerando che, posto di metterci di buona lena agendo con determinazione ed interesse solo ed esclusivamente per la cosa pubblica, ci vorranno anni per riavvicinare (non raggiungere) livelli di benessere paragonabili a quelli precedenti la crisi, si devono mantenere i piedi per terra, ad iniziare da chi ci governa. Va quindi precisato che i dati sono sicuramente di inversione, ma rispetto ad una situazione di minimo storico, inoltre i fallimenti aziendali dovranno fisiologicamente raggiungere un minimo, le aziende non strutturate o poco solide o non votate all’export, in grado di sopportare la crisi sono perite, le altre invece sono riuscite a sopravvivere. Il massimo dei fallimenti, benché ad un tasso inferiore, non è stato raggiunto e si spera che il trend venga invertito non più annoverando diminuzione di fallimenti, ma incremento di nuove attività, circostanza ancora lontana dal verificarsi. La disoccupazione è stata crescente per 14 trimestri consecutivi ed ora ha, fortunatamente, subito una battuta d’arresto, nonostante ciò, come per il PIL e gli altri indicatori, l’Italia rimane agli ultimi posti in Europa, la disoccupazione in Italia si attesta al 12.4%, mentre nell’area euro è all’11.7% ed al 9.7% nell’UE.

Non è quindi tempo di crogiolarsi, nè di cantare vittoria, né tanto meno di credere che il peggio sia alle spalle, parimenti però devono essere sfruttate, inderogabilmente, le congiunture favorevoli che non si ripeteranno. Questo è il tempo di impegnarsi totalmente sulle riforme economiche, quelle che, una volta entrate rodate, dovrebbero supportare la ripresa economica. Imprescindibile in questa situazione è cercare di favorire in ogni modo gli investimenti, privati, ma anche pubblici, creare posti di lavoro di qualità nei nuovi settori trainanti e quelli ad alto valore aggiunto, supportare imprese e cittadini cercando di aumentarne il potere d’acquisto ed al contempo favorire il ricambio generazionale sul lavoro, quindi incentivare uscite a valle di piani di assunzioni. Le mosse del governo invece non sembrano andare in questa direzione, sono più votate al blocco salariale, alla riduzione delle pensioni per consentire risparmio immediato, senza calcolare che le decurtazioni che sono allo studio saranno denari sottratti all’economia reale. Su una pensione netta di 1500-1800 euro, alta per le pensioni medie italiane, è difficile pensare che siano tanti i denari destinati al risparmio, più probabile che siano utilizzati per il sostegno della famiglia, dei figli e per le spese, il sillogismo si amplifica se si va a ragionare sulle pensioni, la maggioranza, di importi inferiori. Decurtare il potere di spesa dei pensionati con pensioni medie, in un paese a maggioranza di pensionati e con grande necessità di rilanciare i consumi forse si tratta di un autogol.

L’Esecutivo dovrà poi cimentarsi con la sentenza della Consulta sul blocco delle pensioni, non è pensabile che con il rimborso medio di 500€ il problema sia risolto, le associazioni dei consumatori ed i sindacati sono già in allerta. In aggiunta la Consulta dovrà, il 23 giugno, pronunciarsi sul blocco degli stipendi statali. In merito a ciò l’Avvocatura dello Stato, chissà se consigliata da qualcuno, ha già inviato un monito, quasi minaccioso, alla Consulta stessa:

“L’adeguamento degli stipendi statali costerebbe 30mld – 35mld, cifra insostenibile per lo Stato”

A chi volesse essere ingenuo, realista e seguire una logica oggettiva e razionale, le vicende del blocco delle pensioni e degli stipendi statali insegnerebbero che si può soprassedere la Costituzione per problemi di bilancio.
L’accostamento sarebbe spontaneo ed automatico: non avendo la possibilità di arrivare a fine mese, non potendo permettermi cibo, medicinali o di pagare debiti/tasse/stipendi, è concesso agire in deroga alla costituzione. Se non foss’altro che tra Stato e Cittadini non vale il viceversa.

Indubbiamente due questioni spinose e potenzialmente molto, molto, costose per il Governo, che sicuramente nel cercare di far valere la propria posizione, evidentemente pendente verso il non rimborso anche perché non ha materialmente le risorse, potrà contare su tutto l’appoggio della Commissione Europea.

Vi sono poi altre due questioni da cui non è possibile svincolare la ripresa italiana e non solo: la crisi Russo-Ucraina e quella Greca (ambedue segnali concreti di una Europa, per come è impostata attualmente, incapace di gestire e porre argini a problemi che potrebbero essere sempre più frequenti nel contesto globale).

Sul fronte Ucraino gli scontri si sono nuovamente intensificati e gli USA premono perché, non avendo rispettato Mosca gli accordi di Minsk, le sanzioni vengano intensificate, come peraltro previsto dagli accordi sottoscritti. Ciò penalizza l’economia Italiana che ha nella Russia, oltre che un fondamentale partner energetico, un’importante valvola di sfogo delle produzioni nostrane. Non di meno ciò avviene alla vigilia di un’importante visita di Putin nel nostro paese.

La crisi Greca, nonostante sia da settimane che si sente proferire la locuzione che la svolta è vicina e nonostante le rassicurazioni da parte delle istituzioni UE che tendono a minimizzare l’impasse, assicurando che la politica monetaria ha creato uno scudo protettivo sull’eurozona, non pare di soluzione prossima. Atene avrebbe dovuto pagare entro il 5 giugno 312 milioni all’FMI, il quale ha accettato di ricevere il pagamento in unica soluzione assieme alle altre trance il 30 giugno, per complessivi 1.6 miliardi, non disponibili nelle casse greche. Parallelamente al pagamento posticipato, la Grecia di Tsipras e Varoufakis, ha rifiutato il piano di riforme proposto dal Brusselles Group, ritenuto ancora troppo votato all’austerità, foriero di altra recessione ed insostenibile per il già vessato ed in ginocchio popolo greco. I cardini della discordia vertono principalmente sul livello dell’aliquota IVA (l’UE la vorrebbe unica al 23%, molto più bassa Atene), sull’ulteriore taglio all’importo delle pensioni, ad un’aumento dell’età pensionabile, allo stop ai prepensionamenti ed infine al livello di disavanzo di bilancio.

Sia sul tema russo-ucraino che su quello greco la tendenza dell’Unione è minimizzare l’impatto del problema sull’UE, mentre quella della ben più realista USA è di spingere affinché venga trovata una soluzione, lo scenario è ancora fragile, dicono da Washington, e nel caso di un default greco, di una ristrutturazione del suo debito o peggio di una sua uscita dall’Euro, le conseguenze sono imprevedibili ed inesplorate e sicuramente con importanti ripercussioni, nonostante le limitate dimensioni dell’economia greca, mondiali.

I mercati nel mentre rimangono tesi e tirati e gli speculatori si fregano le mani.

Molti dati italiani in questo periodo hanno volto in positivo, ed è un bene, ma pensare di aver imboccato la retta via è ancora tutt’altra cosa, sono troppi i legami ed i fattori contingenti, in parte positivi ed in parte negativi indipendenti e non influenzabili, a cui siamo legati a doppio giro. Pertanto non è possibile perdere colpi in Italia, che ancora traballa, perseverando in altri ritardi senza fare ciò che ora può e deve essere fatto.

Valentino Angeletti
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Bilancio delle Regionali, vincitori (pochi) e vinti (quasi tutti)

Archiviate le regionali 2015 e consolidati i risultati in tutte e 7 le regioni coinvolte, è tempo, per tutte le parti politiche, di tirare i bilanci.

Il risultato di 5 – 2 in favore del PD, se trattato come se si stesse parlando di una partita di calcetto o alla PlayStation, con la quale il presidente PD Orfini stava giocando assieme al Premier Renzi appena prima di dichiarare alla stampa che il risultato ottenuto dal PD poteva definirsi assolutamente ottimo, effettivamente farebbe pensare ad una vittoria dei Democratici, schiacciante, tanto più se lo si inserisce in un contesto regionale italiano dove 16 regioni su 20 sono governate dal PD (10 strappate dai democratici al centrodestra proprio sotto la guida Renzi). Di seguito l’immagine della copertura regionale a livello nazionale (ovviamente Rosso PD, Blu centrodestra) e le percentuali riferite ai risultati di queste tornate elettorali regionali (gentilmente presa dal sito della Repubblica) per singola regione e per i due candidati più votati:

Regionali2015-Risultati

In realtà di vittoria schiacciante per il PD non si può parlare per diverse ragioni, così come non si può parlare di vittoria per nessuna altra formazione politica, eccezion fatta forse per la Lega personificata in Salvini e non più la vecchia Lega secessionista bossiana che ben poco a a che fare con quella attuale. Ovviamente tutto ciò a dispetto delle dichiarazioni di parte, che come sempre a valle di una tornata elettorale, tendono a erigere, adducendo motivi talvolta triviali e stabili come un castello di sabbia sahariana durante una tempesta di vento, loro stessi a vincitori.

Nessuno può dirsi vincitore perché a dominare realmente è l’astensionismo. In totale l’affluenza ha superato di poco il 50% (52.2%) e questa è una sconfitta per la democrazia e per l’esercizio del diritto-dovere civico. Vero è che pare dimostrato che l’astensionismo difficilmente influisce sull’esito finale, ma è altrettanto vero che, soprattutto nella situazione di disaffezione nei confronti della politica e delle istituzioni, che si percepisce chiaramente tra i cittadini italiani, è chiaro segno che la gente comune non crede più che la politica possa risolvere i problemi del vivere comune, non sia in grado di migliorare la realtà e, quel che è peggio, agisca solo ed esclusivamente a proprio beneficio. Ad incentivare ulteriormente l’astensionismo ha contribuito la scelta di collocare l’election day a cavallo di un lungo ponte primaverile, peraltro caldo e soleggiato, che, unitamente alla distacco tra cittadino ed istituzioni, ha creato un mix esplosivo.

Tra i partiti, FI deve prendere atto di poter vincere solamente se si colloca a traino della Lega di Salvini. Le parti nel centrodestra si sono invertite, il partito dominante è la Lega. Se Lega e FI si uniscano, e magari anche NCD di Alfano scende al compromesso sottostando alle richieste salviniane, quindi abbandono del Governo, le potenzialità del centrodestra sono molto ampie, soprattutto se rappresentato da un volto carismatico e comunicatore, come lo è Salvini e parzialmente Toti, al momento esponente di spicco di FI dopo Berlusconi. Ricordiamo che l’Italia rimane comunque un paese nel suo complesso di orientamento destrorso che attualmente però non trova sfogo e, quando non sceglie Salvini, si riversa nell’astensionismo.

Il M5S ha confermato ottime percentuali. A poco vale il tentativo di screditare il risultato dei pentastellati operato dal Presidente Dem Orfini, secondo il quale, sfoderando un’ironia che non gli era certo propria prima che si convertisse in Renziano duro e puro, la tornata regionale per il M5S si è conclusa con “Zero Tituli” di Murinhiana memoria. In realtà il M5S si è confermato seconda forza politica ed in molte regioni primo partito. Se si andasse alle elezioni nazionali in questo momento sarebbe il M5S a giocarsi l’eventuale ballottaggio dell’Italicum, con la possibilità di attrarre voti trasversali di tutti coloro che vorrebbero mettere sotto il PD di Renzi. Per tale ragione è possibile che le elezioni anticipate, un tempo non temute dal Governo e forse viste come potenziale occasione per fortificare le posizioni non ancora ad appannaggio di Renzi, siano ora temute. Addirittura alcune fonti riportano di certe voci all’interno del parlamento che starebbero avanzando l’ipotesi di modificare o annullare l’appena nato Italicum; personalmente non credo sia possibile una retromarcia simile, soprattutto per l’immagine dell’esecutivo, ma si tratta di più di un’illazione che vale la pena menzionare. Il M5S, nonostante l’ottimo risultato tra il 20 ed il 25% non può essere considerato vincitore perché, in linea con la tendenza generale, lascia sul campo rispetto alle ultime regionali, circa 1 milione di voti; tralasciando questo calo in valore assoluto, che comunque non inficia sulla percentuale ottenuta, anche il M5S potrebbe essere annoverato tra i vincitori.

Passando al PD, nonostante il risultato numericamente favorevole, lascia sul campo oltre 2 milioni di voti. Per i Democratici nel complesso le ultime regionali in cui era Bersani a rappresentare il PD andarono meglio. Il bilancio del PD è, per le sette regioni interessate da questa tornata elettorale, in pari, mantiene 5 regioni, perde la Liguria, ma guadagna la Campania. Va detto però che dove il PD vince, lo fa con personalità non renziane, anzi fino a poco tempo fa decisamente lontane da Renzi, Emiliano in Puglia e De Luca in Campania. Dove invece erano presenti candidati renziani: la Paita in Liguria e la Moretti in Veneto, la sconfitta è stata bruciante, in Veneto per il PD è addirittura il peggior risultato per il centrosinistra dai tempi del PCI, nonostante il Premier si fosse speso personalmente a Treviso parlando agli imprenditori veneti. Non ha quindi vinto il renzismo, anzi hanno vinto le vecchie figure del PD con “l’aggravante” campana, dove la vittoria per 2.8 punti percentuali deve ringraziare in gran parte i voti portati dall’alleanza col sempreverde Demita dell’UDC, sparito a livello nazionale, ma molto forte nei propri territori.

Infine la Lega. Essa è la vera vincitrice in quanto oltre ad aver aumentato la percentuale è l’unica ad aver aumentato anche i votanti in valore assoluto. Ha fatto filotto in regioni un tempo impensabili, come Liguria (dove ha consentito la vittoria di Toti) e Toscana (incluse province come Pisa, Massa, Lucca), ovviamente ha stravinto in Veneto. Non v’è dubbio che il driver che ha consentito a Salvini l’exploit è stata la battaglia durissima contro i Rom che ormai sono visti come problema dai votanti di ogni partito.

Fatta questa semplice disamina parrebbe logica e doverosa conseguenza che ogni schieramento politico facessa una approfondita analisi introspettiva.

Il M5S deve prendere atto di non essere più solo un movimento di protesta o votato alla sola opposizione, ma, con l’Italicum ed il meccanismo del ballottaggio, un pretendente al Governo. Pretendente forte, perché in caso di ballottaggio potrebbe essere in grado di erigersi a ricettacolo di tutte le forza trasversali anti PD renziano, che sono oggettivamente molte. Secondo questo nuovo ruolo il Movimento dovrà quindi indirizzare la propria strategia, pensare ad un impegno concreto e propositivo, mantenendo i temi al centro, ma con la consapevolezza di dover portare a casa in modo concreto e fattivo il risultato di quanto propongono. Quindi se vi sono provvedimenti di elargizioni, parimenti dovranno esserci risorse; se si pensa ad una modifica sostanziale della legge Fornero e del reddito di cittadinanza dovranno essere portati a compimento, ad esempio, adeguati tagli di spesa; se si vuole sconfiggere l’evasione e l’elusione, dovranno essere presentati fattibili strumenti di contrasto, e via dicendo. La partita è difficile e la posta in gioco alta: Palazzo Chigi. Ma con un ammorbidimento di certe posizioni, con una maggior capacità di dialogo ed intermediazione i Pentastellati potrebbero avere le carte in regola per giocarsi fino in fondo questa partita.

Il Centrodestra, quindi principalemte Lega, FI ed NCD, devono decidere cosa fare da grandi. FI deve convincersi di non essere più il fulcro del CDX, ma in questa fase politica si deve accontentare della scia della Lega. Sempre in casa FI, inoltre, dovrà essere definito il ruolo di Silvio Berlusconi ed individuato un erede dal carisma non nullo, che manca ai presunti leader attuali. NCD dovrà decidere se entrare definitivamente nell’orbita di Renzi, sottostando alle sue tendenze accentratrici e poco inclini al dialogo ed alla mediazione, o se permanere nel CDX, ma preparandosi a convivere con Salvini e, vista la sua predominanza, accettarne gran parte dei punti programmatici. Pensare ad una esistenza autonoma è per il partito di Alfano equivalente a viaggiare sulla soglia dello sbarramento con pochissime possibilità di far valere una qualche posizione propria in sede parlamentare. La Lega invece deve chiarire se voler avanzare pretese sul Governo nazionale o accontentarsi di una presenza, poderosa e dirompente, ma solo in alcune regioni. Per poter mirare a Palazzo Chigi, addirittura con il ruolo di principale partito della coalizione di CDX, dovrà però ammorbidire certe posizioni e cercare il consenso del sud, ove piano piano, soprattutto facendo leva sulla questione degli immigrati e dei ROM, Salvini sta diventando sempre meno antipatico. A Roma, ad esempio, sono molti i sostenitori del Leghista, cosa un tempo impensabile.

Il PD è il partito che necessita di una analisi più approfondita. La linea di Renzi e del suo entourage in riferimento al risultato delle elezioni è quella di un successo. Nel mentre però il Premier è volato in Afganistan stranamente senza rilasciare dichiarazioni o tweet. Ha indossato la tuta mimetica, sovrapponendola ingenuamente alla camicia bianca, ed ha fatto gli auguri per la festa della repubblica al nostro contingente. Questa immagine è stata accostata dall’arguta quanto maliziosa Lucia Annunziata, a quella di un noto telefilm USA che pare essere la moderna ispirazione dei politici quarantenni: House Of Cards (pensare che un tempo la politica era ispirata da Pericle e dalle École d’études politiques francesi…. ora da un telefilm statunitense…. Forse se ne vedono i risultati…. ma sono certo che torneranno anche i tempi che furono). L’Annunziata avrebbe paragonato l’immagine di Renzi a quella di un protagonista della serie TV che dopo aver perso pesantemente le elezioni si è fatto fotografare presso un cimitero militare in una mossa dall’alto impatto comunicativo. Non si vogliono dare giudizi su questa similitudine, ognuno e libero di farsi la propria idea. Nel PD dovrà necessariamente aprirsi un dialogo con la minoranza DEM che, a ragione, può avanzare pretese di maggior considerazione: le regionali hanno dimostrato che la minoranza DEM non è morta, anzi tutt’altro, forse al momento buona parte degli elettori del PD si ritiene più vicino a questi “dissidenti” che alla linea ufficiale del partito, in particolare su scuola, relazioni con sindacati, rimborso ai pensionati, legge Fornero, lavoro ecc. Il risultato di Pastorino in Liguria ha effettivamente provato che “un qualcosa a sinistra del PD” esiste e può valere dal 10 al 15%, voti in parte recuperati all’astensionismo ed in parte drenati dal PD. Evidentemente Renzi non è più l’uomo solo e forte al comando che può vantare consensi plebiscitari, come alcuni volevano far credere indicasse il 41% delle elezioni Europee, quindi ne consegue che il discorso tipicamente renziano secondo cui chi non segue la linea del partito deve andarsene, potrebbe essere controproducente. Il PD renziano ha perso molti consensi ed è chiaro che il modo di agire in solitaria, con autoritarismo e senza aperture ad un confronto costruttivo (la linea è quella di “ascolto tutti, ma decido io come voglio io”) non piace all’elettorato. Di questo fatto Renzi, ebbene si, stavolta lui stesso, deve farsene una ragione, come deve farsi una ragione che i suoi avversari principali saranno M5S e Lega. Il Premier è pertanto tenuto ad indirizzare i suoi programmi in modo tale da contrastare i nuovi avversari, ben più concreti e belligeranti dell’ormai domo Berlusconi. Infine il PD deve affrontare il problema della Campania, di De Luca, dell’impresentabilità e della Legge Severino in modo da non dare adito a critiche e sospetti già nati, consolidati e che a livello nazionale possono minare il consenso. Riguardo all’inserimento di De Luca nella lista di impresentabili, stilata dalla Commissione Antimafia sotto la presidenza di Rosy Bindi, in tutta risposta alle richieste di scuse avanzate dalla Bindi al PD dopo le forti polemiche che abbiamo già trattato, il neoeletto De Luca ha presentato denuncia penale proprio contro la presidente della Commissione. Si attendono velenose code su questa vicenda.

In ultimo due considerazione di carattere generale:

  • La prima riguarda l’astensionismo. Esso ha raggiunto percentuali allineate con il resto d’Europa, ma avulse al contesto italiano, ove, e se ne deve andare orgogliosi, le persone hanno sempre tenuto ad esercitare il diritto-dovere civico, assolvendo il proprio dovere e rispettando al Costituzione. Questo fenomeno deve essere combattuto dalla politica e dalle istituzioni, con una maggior vicinanza alle persone, ed ai problemi concreti dei cittadini. La politica deve occuparsi della Res Publica, del benessere sociale e non alla protezione partitica e del proprio status quo .
  • La seconda riguarda il risultato di Salvini. Il suo successo è dovuto principalmente alla tendenza del leghista ad essere pragmatico su questioni molto concrete e tangibili. In primo luogo immigrazione e ROM (la Ruspa è diventata il sibolo della Lega più del Carroccio e di Alberto da Giussano). Questi temi sono diventati molto problematici perché i governi che si sono succeduti sono stati incapaci di affrontarli e risolverli o quantomeno mitigarli, col risultato che ora, complice un disagio sociale dirompente, sono diventati oggettivamente gravi problemi, non più sopportabili nè rimandabili. Essi muovono odio ed anche pericolose tendenze razziali e xenofobe ed hanno consentito l’escalation salviniana anche in Toscana, Liguria e precedentemente in Emilia-Romagna.

A parte il probabile interesse del Governo ad arginare la crescita della Lega, il problema dei ROM e degli immigrati è bene che venga ascritto immediatamente tra le priorità da affrontare con fretta estrema. In ultimo, l’auspicio che le discussioni, che inevitabilmente porteranno con se questa elezione regionale, non sottraggano energie, forze e tempo alle riforme economiche di cui abbiamo assolutamente necessità.

02/06/2015
Valentino Angeletti
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