Archivi Mensili: settembre 2014

Governo Renzi ed i venti che, reclamando risultati, cambiano. Adesso fare presto e bene!

Sembra passato un secolo dai tempi della Leopolda, quando la maggior parte dei media (a cominciare dalla carta stampata), degli imprenditori quelli nuovi ed illuminati (Farinetti, Guerra, Della Valle, Colao ecc), ed anche tanta politica non lesinavano manifestazioni di stima e di appoggio esplicito nei confronti di Matteo Renzi. Tutti ricordano (o forse no?) la sua raccolta fondi tramite la fondazione Big Bang con tanto di regolare pubblicazione su internet, la cena milanese col Gotha della finanza impersonata per Renzi dal rampante Davide Serra di Algebris, quella ad Arcore con Berlusconi ed altri non precisamente noti e si rammenta anche l’intesa con Landini della FIOM.
Ora a distanza di circa un anno molto è cambiato.
Le critiche al Premier piovono da più parti e forse l’unico a non aver mutato radicalmente il proprio atteggiamento è quel ramo del PD, gli scissionisti, che fin da subito non lo avrebbero voluto nelle posizioni che sta ricoprendo.
Le stoccate a Renzi sono arrivate pungenti dal Corriere, un tempo sostenitore esplicito, portate direttamente da Ferruccio De Bortoli, dall’ex amico Della Valle sempre tagliente e senza mezze misure, dalla CEI e dai Cardinali (Galantino, Bagnasco ed dal quotidiano Avvenire) che chiedono meno slogan e più fatti, dal Sole 24 Ore col direttore Napoletano e le “punture” di Stefano Folli e Barisoni, per non parlare del Sindacato, tra i quali con la CGIL esiste una evidente rottura.
Nel PD si parla addirittura di esplicita volontà di rompere (Civati), salvo poi smentite a mezzo di un poco edificante visti i precedenti “Stai Sereno” di Bersani.
La Camusso (CGIL) ha paventato la possibilità concreta di sciopero per via dell’apertissima partita sull’articolo 18 (che in realtà dovrebbe essere ampliata a tutta la riforma del lavoro e non limitata ad un solo articolo).
Di tutto ciò si avvantaggia il NCD che spinge sull’uso del decreto per riformare il lavoro (ipotesi inaccettabile per la CGIL) e FI che approfitta per provare a rinnovare la classe dirigente e ricordare la loro disponibilità a 360° sulle riforme pur sottolineando il ruolo di opposizione.
Che cosa è cambiato in questo lasso di tempo?
Allora come ora la situazione era di emergenza, riecheggiavano i “non c’è più tempo”, i “fate presto”, e l’Esecutivo non sembrava in grado di poter fornire lo shock necessario.
Renzi si era presentato, oltre che con grande capacità comunicativa, con un concetto di velocità e radicale cambiamento effettivamente indispensabili e condivisi, almeno negli intenti, trasversalmente. In seguito presentò un ambiziosissimo crono programma con tanto di precise date (che lo avrebbero differenziato da un sogno), 100 giorni, una riforma al mese da portare a termine, cambio radicale della classe dirigente industriale e dell’establishment politico, giovani e donne, grande importanza e leva sul semestre di presidenza italiano in UE, ipotizzò, appoggiato da Padoan, un pil a +0.8% nel 2014 definito per giunta pessimistico e con possibili sorprese positive.
Venendo al presente alcune cose sono state fatte, il taglio del 10% dell’Irap ed il bonus Irpef sono state due buone misure anche se gli effetti sono stati smorzati in gran parte dagli elementi congiunturali e macro economici peggiori.
Molte cose sono ancora in cantiere ed avranno a venire, ma i 100 giorni sono diventati 1000, molti provvedimenti (si parla di 700) dei Governi passati attendono ancora l’attuazione, la legge elettorale è ferma, le province sono diventare aree metropolitane ma comunque oggetto di elezione di secondo livello che di fatto mantengono in piedi buona parte degli “apparati”, la riforma del Senato è passata in prima lettura, ma ne serviranno altre tre e quindi almeno un altro anno di attesa, i debiti delle PA sono stati pagati al 50% (pur avendo stanziato fondi per una percentuale superiore) e l’Italia rimane cattivo pagatore contravvenendo alle norme UE e con la possibile scure di una procedura di infrazione, la riforma del lavoro non sarà né così rapida né così indolore, il decreto sblocca Italia deve ancora essere riempito di contenuti, grandi investimenti infrastrutturali non se ne vedono così come un sensibile aumento degli investimenti privati nostrani ed esteri, la burocrazia continua a fare il suo lavoro, il semestre UE è già a metà ed il PIL sarà negativo tra 0.2 e 0.4% con 1 pto percentuale di peggioramento rispetto alle previsioni.
Coloro che ora criticano Renzi a questo punto del percorso si aspettavano risultati più concreti.

In realtà non si può dare la colpa a Renzi, ha ereditato una situazione più che difficile ed il Governo non è suo, ma di compromesso. Gli si può rimproverare però di essere stato troppo ambizioso, un po’ superbo e facilone ed aver posto l’asticella decisamente troppo in alto (LINK). Ad esempio se dici alle imprese che alla data X le PA salderanno i propri debiti, esse si attendono che al giorno X+1 i soldi siano accreditati sul loro conto corrente e non semplicemente stanziati e ostaggio dei soliti lacci e lacciuoli burocratici. Allo stesso modo è rimproverabile a persone di indubbia esperienza di essersi fatte prendere dalla voglia di speranza pensando che davvero in così poco tempo (100 giorni???) si potessero raggiungere risultati così ambiziosi.
Il Governo di compromesso, le lotte intestine al PD, i diverbi col Sindacato non fanno bene alla velocità e neppure alla bontà del risultato finale che dovrebbe essere il più possibile condiviso e mirato al bene collettivo.

Parla bene la CEI quando dice che l’articolo 18 non è un dogma, si può fare tutto, l’importante è che alla fine sia più facile assumere e dare lavoro; dicono bene i Sindacati, CISL in particolare, quando ricordano che la riforma del lavoro deve puntare a migliorare le condizioni e le dinamiche lavorative per le aziende e per tutti i lavoratori, sicuramente non peggiorarle; dice bene anche Renzi quando parla di necessità di una profonda riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali in caso di perdita del posto verso una efficace riqualificazione del lavoratore a spese dello stato in settori più funzionali (modello tedesco).

Meritano poi una brevissima menzione i cosiddetti poteri forti, chi sono costoro? Possono essere De Benedetti, Bazoli, Bisignani, Passera, Ligresti, Geronzi, Romiti, ma possono essere anche Carrai, lo stesso Serra, De Benedetti, Marchionne, Verdini, Letta e Berlusconi…. In sostanza a quei livelli porta che apri potere forte che trovi.

Insomma, il compito è arduo, il consiglio umilissimo, dote che in generale dovrebbe essere riscoperta, è che non devono esistere ideologie e preconcetti, si può fare e discutere su tutto, la vera sfida titanica è farlo in fretta e bene (ma forse le forze conservatrici sono ancora troppo presenti, pervasive e potenti), perché le alternative reali che pure non è vero non esistere (leggi Troika) possono essere devastanti per lo stato sociale e per i cittadini, in particolare coloro che a ben vedere hanno sempre pagato.

Link:
Renzi, lontano dai salotti buoni, dovrebbe far attenzione e pensare ad un piano di risk management; nulla è per sempre
L’ora ics un inizio, effettivamente perfettibile, ma mai intrapreso prima
Governo Renzi, quanti compromessi potrebbe dover accettare?
Riforme come quella del Senato sono importantissime; proviamo però ad inserirle in un ragionamento di respiro globale

 

28/09/2014
Valentino Angeletti
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Draghi espansivo, ma Schaeuble frena con gli ABS

La politica monetaria è solo parte degli strumenti da adottarsi in un contesto di crisi come quello in essere. Essa dovrebbe fornire uno shock immediato che vada in parallelo ad un profondo processo riformatore a livello nazionale ed europeo volto a rilanciare investimenti e crescita strutturale ma che necessita di tempo (orizzonte dal medio a lungo periodo per sentirne effetti tangibili) e di risorse economiche attualmente imbrigliate dal perseverare delle politiche di austerità, da un contesto di credit crunch, da bassi consumi e potere d’acquisto, da bassa inflazione e sfiducia. Proprio dare una reazione immediata e risorse economiche nel breve e brevissimo termine al servizio delle misure con effetti strutturali dovrebbe essere il compito delle politiche monetarie in momenti di emergenza. Premesso (ripetendolo per l’ennesima, volta) ciò, che le linee di pensiero di Draghi e Schaeuble non fossero convergenti è da tempo evidente, ma nelle ultime settime l’asperità quasi ancestrale tra i due capi economici sta assumendo toni preoccupanti. Preoccupanti perché la salvezza dell’Europa e la sua capacità di agire rapida, cosa che fin qui non è stata  in grado di fare né negli ambiti di competenza delle Commissione né in quelli della BCE tanto da arrivare a dati di occupazione ed inflazione, solo per citarne due, frutto di un processo di deterioramento di lunga durata, è strettamente vincolata alla volontà ed alla determinazione nel perseguire una strategia e degli obiettivi di interesse comune.

Draghi da Vilnus dove stava augurando un buon ingresso nell’Euro alla Lituania ha ribadito per l’ennesima volta l’intenzione della BCE di utilizzare se necessario misure non convenzionali di stimolo monetario a supporto dell’economia. Simili intenti sono stati proferiti più e più volte negli ultimi anni e pur non essendo mai accolti con piacere dal Ministro delle Finanze tedesco e dal Governatore della BuBa, mai si era arrivati ad un simile livello di tensione. Tale escalation probabilmente è dovuta al fatto che Draghi dopo le parole ha dato prova di reale azione con più determinazione del solito avviando la prima tranche di T-LTRO dei giorni scorsi e con la prosecuzione dei bassi tassi che hanno portato il cambio Euro -Dollaro ai minimi da due anni a circa 1.27 (benché sarebbe ragionevole puntare ad un rapporto circa 1). Questo passaggio dall’effetto annuncio a fatti concreti sta intimorendo la Germania che è l’unico stato che ha giovato di alcuni elementi caratterizzanti la crisi, come una moneta molto forte, benché adesso, ma pare che a Berlino non vogliano ancora digerirlo, anche per loro il vento stia cambiando. La paura aumenta davanti alle ipotesi di mettere in atto gli ABS, discussi nella prossima riunione del Board BCE a Napoli, di utilizzare 80 miliardi del fondo salva stati per favorire crescita ed occupazione (proposta Juncker) e di QE con acquisto da parte della Banca Centrale di titoli di stato.

Gli ABS sono prestiti impacchettati e cartolarizzati dalle banche che la BCE potrà acquistare consentendo così un alleggerimento del bilancio dell’istituto e quindi una sua maggior propensione (teorica) all’erogazione di credito ad imprese e famiglie. I derivati acquistati dalla BCE dovranno avere rating senior o al limite mezzanino, i più sicuri e garantiti in caso di problemi di rimborso.

L’affermazione del Governatore BCE che l’Europa non è né in recessione né in deflazione ha voluto forse stemperare un po’ le parole seguenti, dove narra di uno stato di deterioramento preoccupante, di ripresa meno tonica del previsto, di inaccettabile livello di disoccupazione, di inflazione bassa ancora a lungo, e del credit crunch. In aggiunta a ciò, soprattutto per quel che concerne il credit crunch, va detto che la prima tornata di T-LTRO ha avuto meno successo del previsto per due ragioni fondamentali, la minor richiesta di credito (a mio avviso dovuta proprio al credit crunch stesso che spinge hp non richiedere prestiti poiché non erogati) ed il timore degli stress test operati dall’Europa sulle banche.

I dati economici peggiori, il vincolo dell’intermediario bancario che sia nella prima fase di aiuti che in questa seconda non riesce a convogliare efficacemente ed in misura sufficiente liquidità alle imprese ed alle famiglie e la necessità comprovata di investimenti pubblici e privati sono elementi che possono far propende la BCE ad agire con ulteriori strumenti, quindi ABS, che pur non eliminerebbe le banche come vincolo, e l’acquisto diretto di titoli di stato.

L’acquisto di bond nazionali dal mio punto di vista risulta importante, come poi lo sarà un percorso di convergenza verso bond-europei a meno che non si vogliano riscrive la missione e gli obiettivi dell’UE, non per mantenere lo spread basso come poteva essere per il 2011, ma per fornire in modo diretto ai singoli stati liquidità che potrebbe così essere utilizzata per gli investimenti pubblici di cui ad oggi molti stati necessitano senza essere in grado di affrontare per i vincoli di bilancio che anche in questo inizio di Commissione Juncker rimangono un tabù che non si vuole mettere minimamente in discussione.

Il Ministro Schaeuble ed il Governatore della BuBa, ma anche il Cancelliere Merkel, avanzano una ipotesi di conflitto di interessi della BCE poiché in caso di ABS  l’istituto andrebbe ad acquistare titoli derivati da banche che sarebbero soggette al controllo implementato all’interno dell’unione bancaria fatto dalla BCE stessa, non è condivisa inoltre l’idea di utilizzare 80 miliardi del fondo salva stati ESM per occupazione e crescita sostenendo che il fondo serve per garantire stabilità in momenti di crisi ed un suo indebolimenti indebolirebbe anche la capacità dell’UE di rispondere ad eventi avversi. Questa tendenza è evidentemente finalizzata da un lato a proteggere le proprie banche dagli stess test e dal processo di unificazione e controllo tanto osteggiato da Berlino e dall’altro a mantenere uno status quo di vantaggio competitivo dovuto a tassi sui titoli di stato tedeschi più volte in territorio negativo e moneta forte associata ad esportazioni comunque sostenute, il tutto in un contesto di sistema paese funzionale, rapido, competitivo, creatore di valore aggiunto e terreno fertile per gli investimenti. La Merkel ha ribadito di prediligere il rispetto dei conti, la disciplina di bilancio (leggi rigore ed austerità edulcorati da termini più diplomatici) e le riforme rispetto a piani di investimento, soprattutto pubblico, che gli 80 miliardi prelevato dell’ESM dovrebbero supportare, come dovrebbero essere utilizzati parzialmente in questa direzione anche i 300 miliardi menzionati da Juncker per dare una accelerata a crescita ed occupazione.

Non si comprende però, a parte la scusa dell’inflazione e della Repubblica di Weimar, come la Germania non si sia ancora accorta che il suo atteggiamento ed il suo peso in Europa che la rendono ago della bilancia in ogni decisione hanno danneggiato gravemente il tessuto europeo, direttamente dal punto di vista economico e del protrarsi della crisi, ed indirettamente contribuendo alla fortificazione di un sentimento anti Europa che ha dato natali ad importanti movimenti di estrema destra e xenofobi che facendo leva sul disagio sociale e la povertà (perché in molti casi di povertà si tratta) hanno gioco facile nella creazione populistica di consenso spesso scagliandosi contro il diverso o il debole. In Germania l’estrema destra risulta essere uno dei primi partiti con un consenso mai raggiunto dalla fine della seconda guerra mondiale. La stessa Berlino però è bene che analizzi la situazione ed arrivi alla lapalissiana conclusione che un tessuto europeo così povero ed un contesto mondiale in cambiamento con rapporti di forza drammaticamente mutati, un’asse Russia-Cina, le sanzioni a Mosca, le tensioni in medio oriente ed in Ucraina, un mercato energetico europeo ancora poco integrato e molto dipendente dalle importazioni dai colossi di Putin, stanno peggiorando la situazione anche della stessa Germania, e lo si può notare da un calo delle esportazioni ad esempio; inoltre anche in terra tedesca vi sarebbe necessità di qualche investimento pubblico infrastrutturale, principalmente lato TLC, viabilità, trasporti che se affrontato ridurrebbe il surplus sotto il limite europeo del 6% e potrebbe apportare benefici anche all’intera Europa.

La terra bruciata europea che si sta creando attorno alla Germania ed i nuovi assetti geopolitici metteranno senza alcun dubbio anche Berlino alle corde, solo che quando vi arriverà per il resto d’Europa, meno virtuosa e già alle strette, sarà troppo tardi. La Germania fino ad ora si è comportata da Boss al limite della tirannia invece che da Leader locomotiva capace di sacrificarsi e rinunciare a parte dei suoi vantaggi immediati per un ritorno collettivo nel medio-lungo periodo. Si tratta della solita lotta, che possiamo vedere anche in Italia nella partita delle riforme o delle ristrutturazioni organizzative, tra coloro che vogliono mantenere una situazione privilegiata a dispetto di un cambiamento benefico per la società e chi invece lotta affinché si possa raggiungere un benessere collettivo distribuito. Inutile dire chi siano i buoni e chi i cattivi come inutile ribadite la necessità della Commissione di tagliare quel cordone ombelicale che la limita nella penombra dell’egemonia tedesca.

Draghi: “allarme rosso sulla ripresa”. Alcuni Mea culpa, ma soprattutto un futuro da affrontare diversamente

La lenta fretta del G20 ed una realtà italiana più tartaruga che Achille

FMI taglia stime PIL; riforme nella giusta direzione ma da applicare in un Governo che non sembra così coeso

OCSE taglia stime di crescita, scenario fragile. Serve più flessibilità parallelamente al processo di riforme.

25/09/2014
Valentino Angeletti
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Draghi: “allarme rosso sulla ripresa”. Alcuni Mea culpa, ma soprattutto un futuro da affrontare diversamente

Alla frase: “La situazione economica europea è debole e fragile…” et similia ci eravamo abituati, potremmo quasi dire di esserne ormai immuni. Di tono ben più allarmante, sempre considerando l’aplomb e lo stile del personaggio, sono state le dichiarazioni del Governatore BCE, Mario Draghi, che da Bruxelles ha rincarato, e di molto, la dose. Secondo il Governatore dell’istituto di Francoforte all’interno di uno scenario macroeconomico che permane debole e fragile i segnali di ripresa, a dire la verità mai stati eccessivamente violenti, hanno ulteriormente perso slancio e la lentezza delle riforme contribuisce pericolosamente a solidificare lo stato di crisi.

Per Draghi la BCE ha fatto ciò che doveva fare, quindi parafrasando avrebbe rispettato in toto il proprio mandato, con la sola eccezione, e si tratta di un mea culpa ufficiale non da poco, di aver sottovalutato l’imperversare della disoccupazione che ha avuto un ruolo determinante nell’innescare la spirale deflattiva (o della bassa inflazione).

Alcuni altri appunti si potrebbero però muovere alla BCE.

Innanzi tutto non aver pensato di controllare che gli aiuti erogati inizialmente non venissero fagocitati dall’intermediario bancario ed impiegati esclusivamente a loro pro. Se un monitoraggio della BCE sugli investimenti finanziari speculativi da parte delle banche poteva risultare complesso ed invasivo, lo sarebbe stato decisamente meno il controllo che i denari non venissero depositati overnight proprio presso l’istituto di Francoforte, prassi che era diventata comune per incassare un minimo guadagno senza rischiare.

La deriva verso l’inflazione, oltre ad essere ampliata dalla disoccupazione, non è stata di sicuro un evento improvviso né senza segnali (Link Vari deflazione), ma una deriva per quanto rapida comunque protrattasi nel tempo. Poco è stato fatto, e la colpa in tal caso è anche di alcuni governi che hanno preferito la competizione sui salari rispetto alla qualità di prodotto, per sostenere i consumi ed infondere la fiducia necessaria alla popolazione per affrontare le spese o richiedere credito alle banche, che da tempo avevano iniziato a negarlo quasi sistematicamente.  Il mantenimento di bassi tassi forse è stato troppo lento e comunque non così rilevante per deprezzare l’Euro quel tanto che sarebbe bastato per favorire un minimo le esportazioni europee (la situazione in essere ha favorito neppure a dirlo la Germania).

Sempre la deflazione e la tendenza attendista dei consumatori che la caratterizza hanno abbassato, come già detto, la propensione a contrarre prestiti e chiedere credito, proprio per l’attesa di ulteriori ribassi dei prezzi, così, ed arriviamo all’ultimo punto, le misure di T-LTRO di qualche giorno fa sono state accolte con più freddezza del previsto. Le banche, e la BCE non può forzare a farlo, hanno richiesto minore liquidità un po’ per la domanda di credito bassa, un po’ perché a breve vi saranno gli stress test europei volti a verificare la solidità patrimoniale in cui il prestito e l’uso degli strumenti finanziari hanno un ruolo importante nella determinazione dei vari cor tier. Inoltre gli eventuali benefici del T-LTRO si vedranno in un arco di tempo lungo e quindi non possono essere considerati come la misura shock in grado di deviare il corso economico di questo perdio.

Non v’è dubbio alcuno che la BCE abbia provato ad agire per supportare l’economia, ma non si può neppure negare che lo abbia quasi sempre fatto in ritardo (link).

Quando Draghi afferma, e l’Italia si senta tirata in causa, che i proventi dei bassi spread, decisamente merito degli interventi della BCE, sono stati utilizzati per aumentare la spesa corrente non dice il falso, così come ha pienamente ragione quando denuncia una cronica lentezza nel processo riformatore (La lenta fretta del G20 ed una realtà italiana più tartaruga che Achille). Se in Portogallo ed in Spagna (Link Spagna), pur con tutte le difficoltà sociali che rimangono, le riforme hanno inciso di più ed hanno consentito un progressivo ritorno degli investimenti “green field” così non è per Grecia ed Italia.

La situazione italiana del resto rimane troppo viscosa, incerta, ingessata su situazioni che logorano, distolgono attenzione ed energie alle reali priorità ben note a tutti (link violenta reazione) . Come se non bastasse, con i meccanismi in essere, anche un processo di riforme virtuoso, eccellente ed approvato unanimemente richiederebbe tempo per entrare in fase attuativa e quand’anche fosse attuato i benefici arriverebbero dopo un fisiologico intervallo temporale, più lungo ancora nel caso si voglia considerare l’inversione del dato disoccupazione. La ricetta di Draghi basata su riforme e tagli di spesa è corretta, ma in Italia non è facile agire tempestivamente su questi due fronti.

La spending reviw ha subito le note vicissitudini con commissari succedutesi, programmi e piani precisi reclamati da Bruxelles e non arrivati in tempo, a volte anche eccessive aspettative, perché ci è stato anche rimproverato di relegare il reperimento di ogni risorsa alla revisione della spesa senza però aver presentato un piano che la dettagliasse e la quantificasse, come fosse una sorta di panacea di tutti i mali (Lin1k – Link2). Quando poi sono stati ipotizzati tagli alla sanità, revisione delle pensioni (che la stessa OCSE ha identificato come enormi centri di spesa e sprechi), decurtazioni al settore difesa oppure alle regioni, le proteste e le dichiarazioni belligeranti si sono prontamente sollevate, segnalando che trovare un punto di accordo non sarebbe stata cosa banale, ed infatti al momento il nodo è stato accantonato.

La riforma sul lavoro che dovrebbe contribuire a facilitare gli investimenti (pur ricordando che il lavoro non si crea per decreto) è motivo di scontri intestini nei partiti, tra partiti ed associazioni sindacali e datoriali, tra gli stessi sindacati e pure tra sindacati e lavoratori che in molti casi hanno la sensazione di esser stati lasciati soli per troppo tempo, tanto da giungere ad una situazione dell’occupazione e delle forme di impiego delirante. In particolare è l’Articolo 18 il fulcro della discussione, come se rappresentasse il solo ed unico elemento ostante gli investimenti e causa di disoccupazione. Evidentemente, come lo fu l’IMU all’epoca (ora diventata TASI e che per me affittuario impossibilitato all’acquisto di un mediocre monolocale è passata da circa 90€ ad poco più di 130€) si tratta di un vessillo, di una bandiera che si vuol difendere (nel senso di mantenere o eliminare a prescindere) senza sentir ragioni o aprire le orecchie a mediazioni o soluzioni alternative, chissà forse anche più adatte a questo periodo.

Emblematiche sono state anche le polemiche sull’ipotesi di riduzione dei giorni di ferie alla magistratura ed ancora di più le ormai 14 votazioni per l’elezioni dei membri di CSM e Corte Costituzionale, nonostante il patto del Nazareno e nonostante gli espliciti moniti di Napolitano. Il Presidente si è ripetuto in occasione dell’apertura dell’anno scolastico auspicando il superamento dei corporativismi e dei conservatorismi (e detto da un ottantanovenne fa almeno sorridere).

Situazioni simili sono certamente valutate da eventuali investitori che volessero venire ad investire da zero nel nostro paese. Se qualche ingresso finanziario ed industriale è avvenuto (Ansaldo, Eni, Enel, Generali, Telecom, Fiat, Elextrolux), ormai sono nulli gli investimenti industriali esteri “da zero”. Non tanto l’articolo 18 è il problema che li ostacola, quanto la burocrazia, l’eccesso di norme incomprensibili e di interlocutori con voce in capitolo, la giustizia incerta, la legislazione che spesso agisce a posteriori e retroattivamente della quale ogni azienda è letteralmente in balia (e se si tratta di piccoli artigiani, imprenditori o commercianti con strumenti di difesa nulli), il fisco, per non parlare della corruzione ed infine le condizioni di accesso al credito. Inoltre è evidente che un privato investitore porrà il proprio business dove v’è possibilità di fare profitto e dove l’impostazione non è negativa. Al momento l’Italia è l’unico membro del G20 ancora in recessione, è colei che ha i dati peggiori, e pur rimanendo osservata dagli investitori finanziari, sono pochi rispetto ad altrove coloro che hanno il coraggio di insediarvi il proprio business industriale.

Tutti questi fattori evidentemente impediscono gli investimenti privati (esteri e non), e, pur volendo ipotizzare di agire nel modo più rapido possibile, è illusorio pensare che si possano risolvere in tempo utile per arginare la deriva della crisi. Servirebbe un vero piano di defiscalizzazione dei salari/redditi privati e delle imprese ed una serie di investimenti pubblici in modo da rilanciare potere d’acquisto, consumi ed esportazioni, sostenere l’occupazione  e creare maggiori presupposti per investimenti privati che ora difficilmente potranno scostarsi dalla più o meno pura finanza.

Gli investimenti pubblici però sono in contrasto con il rigore di bilancio (i proventi della spending review sono già allocati per defiscalizzazione e riduzione del debito) imposto dall’UE a trazione tedesca che durante la campagna per le europee di maggio sembrava ad un passo dall’essere superato, ma che in realtà rimane ben saldo.

Lo stesso Draghi nel suo discorso ha voluto intendere che il processo riformatore dovrebbe investire anche l’Europa, anch’essa ingessata. Lo si nota dalle lungaggini del processo di insediamento della nuova Commissione così come dall’incapacità di pianificare ed intervenire in modo sincronizzato su vari fronti economici, politici e sociali, segno che non l’unità di intenti ed obiettivi, mai particolarismi animano ancore l’agire di tale entità al momento più geografica che politica. In questo frangente è rimasto in sospeso il piano di investimento da 300 miliardi annunciato da Juncker ed il semestre italiano è silenziosamente giunto a metà senza che abbia lasciato particolari segni, quando sembrava (ma avevamo detto che non poteva essere così) dovesse essere rivoluzionario. Allo stesso tempo però il Governatore non ha voluto sbilanciarsi ed ha confermato la linea di Merkel – Katainen – Rehn di utilizzare la flessibilità già presente nei patti senza richieste ulteriori. Proprio in questo modo il Cancelliere tedesco ha congelato il Primo Ministro Francese Valss  che gli illustrava il suo piano di riforme sui cui la Merkel non ha lesinato il solito aggettivo “impressionante” (o mente bene o è facilmente impressionabile perché lo ha riservato a tutti).

Si ritorna dunque, anche alla luce del nuovo (opinabile) calcolo del PIL Eurostat che migliora in valore assoluto il dato consentendo per il nostro paese un abbassamento per il 2013 del rapporto deficit/PIL di 0.2% (a 2.8%) e debito/PIL a 128%,  a parlare di concessioni europee, di golden rule, di investimenti produttivi fuori dai vincoli dei patti e di più tempo per il rientro sul debito, elementi che però non vogliono essere neppur considerati seriamente e sono smorzate sul nascere. Sugli investimenti privati potrebbe avere un ruolo importante anche la BCE elaborando meccanismi che supportino direttamente gli stati nei loro investimenti, appoggiandosi alla BEI, alle singole banche centrali (in Italia entità finanziarie come Bankitalia, CDP, FSI ecc) ed in ultimo acquistare titoli di stato, spingendo affinché possa essere valutata la convergenza verso un euro-bond comunitario al momento neppure ipotizzato dalla Germania.

Tutto ciò può avere senso solo se il paese in questione ha un piano di sviluppo, ha idea chiara di dove investire e spendere (e non sprecare), ha una gestione del budget efficiente, punta a nuove tecnologie, innovazione e ricerca, ed a nuovi modelli industriali basati su internet, energia-efficienza, tlc, trasporti di nuova generazione (e qui il nodo digital divide e l’agenda digitale potrebbero davvero rappresentar l’investimento più produttivo di questa fase storica Link), oltre che alle solite strade, ponti ed infrastrutture che comunque nel nostro paese devono essere profondamente rinnovate e riqualificate come del resto tutto il patrimonio edilizio.

Chiaramente a fianco di ciò dovrà proseguire spedito e rapido il necessario processo di riforme nazionali ed europee che tutti richiedono e pretendono, che per taluni è ormai in fase avanzate, per altri ancora non si vede, per altri ancora, i più pericolosi perché beneficiano del precipitare della situazione, pare non esser necessario.

 

22/09/2014
Valentino Angeletti
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India, Cina, Germania non saranno presenti al vertice ONU sul clima

Il vertice ONU di New York sul Clima indetto direttamente da Ban Ki Moon (al quale parteciperà anche il Premier Renzi) non vedrà la presenza di Germania, India e Cina.

In realtà è come giocare un mondiale di calcio senza 3 delle migliori 5 squadre….

Il problema del clima, del cambiamento climatico e della CO2, a parte l’impatto mediatico ed i grandi ed in genere infruttuosi consessi di cui è protagonista, sembra un problema sacrificato dai più diretti interessati sull’altare della crescita senza vincoli né ostacoli neppur quando si parla di sostenibilità ed ambiente.

In nodi comunque prima o poi verranno al pettine.

Il 2013 è stato uno degli anni più caldi in assoluto, ma è anche vero che lo strato di Ozono si è ispessito a dimostrare che non esistono soluzioni semplici o tendenze scontate per un problema così complesso che va necessariamente affrontato, gestito e monitorato.

Link Clima:
Alla conferenza sul clima di Varsavia negoziati dominati dai particolarismi 24/11/13
Conferenza ONU sul cambiamento climatico 13/11/13
Industriali italiani avversi alla riduzione di CO2. Imposizioni rappresentano un fardello o un driver alla competitività? 17/01/14
Piano Energetico 2030: punti da discutere e sviluppare 8/12/13

21/09/2014
Valentino Angeletti
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La lenta fretta del G20 ed una realtà italiana più tartaruga che Achille

Come accaduto nei giorni scorsi all’Ecofin e consessi affini anche all’ultimo meeting G20 australiano non sono emerse grandissime ed eclatanti novità. Si tratta degli stessi allarmi e delle stesse possibili soluzioni di massima per il perseguimento delle quali rimane comunque un certo disaccordo tra i protagonisti. Ripetendo quanto detto per il meeting economico europeo (Ecofin1 – Ecofin2) pare che gli ingredienti siano ormai scelti e condivisi (sembrava lo fossero anche durante la campagna elettorale per le europee del 25/05), ma non si sappia in che ricetta impiegarli … un primo, un secondo o un dolce? Ed anche una volta scelta la portata, che cosa si vuole cucinare?,

Questa continua assenza di allineamento che fa si che oltre ai corposi report ben poco all’atto pratico scaturisca da simili eventi è in palese contraddizione con uno dei messaggi fondamentali che sempre si ribadiscono, e questa volta non fa eccezione, ossia che c’è fretta e che si deve agire il più rapidamente possibile con soluzioni concrete e che portino risultati.

Di seguito per chi volesse approfondire, si allegano alcuni link che descrivono e commentano il G20 di Cairns.

Repubblica G20-Padoan
Repubblica G20 infrastrutture
Quotidiano.net Ripresa incerta
AGI Padoan crescita incerta

I 20 che rappresentano l’85% dell’economia globale lanciano un (ben noto) allarme dicendo:

“i rischi per l’economia globale sono aumentati negli ultimi mesi”.

Non volendo sembrare stucchevole mi vien da dire che, osservando la crisi mediorientale, la questione russa, ma anche i rallentamenti delle economie emergenti, le tensioni a livello monetario e la difficoltà della Cina a raggiungere il target 2014 di crescita del 7.5%, non ci voleva certo il G20 per appurarlo. Nonostante questo alert la stima di crescita, già vista al ribasso, del 2% per l’economia mondiale nei prossimi 5 anni viene ritoccata appena all’1.8%. A fare la differenza però è il diverso ritmo di crescita. Considerare USA, estremo oriente, Africa ed emergenti è ben differente che considerare l’Europa. L’UE cresce meno e più lentamente, la Germania è stata esortata a fare di più soprattutto utilizzando il proprio surplus commerciale; i rappresentanti tedeschi, ad iniziare dal Ministro Schauble hanno ribadito che non con la flessibilità si esce dalla crisi, ma con il rigore dei conti e con le riforme in capo ai singoli stati, difendendo ancora una volta il proprio status-quo. All’interno dell’Eurozona l’Italia non cresce proprio.

A ricordare che siamo in recessione tecnica (per il terzo anno consecutivo) è il Ministro Padoan che però, ottimisticamente, afferma che la crescita tornerà nel 2015 e che siamo in una condizione in cui le riforme servono immediatamente. Anche in tal caso la scoperta non è nuova, in questa sede lo si ripete da mesi e mesi, quasi anni che il tempo è scaduto. La crescita mondiale, e quella italiana del 2015 se vi sarà sarà inferiore forse appena qualche decimo di punto percentuale, non è sufficiente per creare lavoro, imprescindibile per una ripartenza economica stabile, per supportare i consumi ed abbattere gli scenari deflattivi, quindi non lo sarà probabilmente neppure nel nostro paese. Se lo scenario deflattivo continuasse a persistere, secondo Fitch la recessione del Bel Paese potrebbe protrarsi più a lungo, almeno per tutto il 2016, con debito/Pil tendente al 150%, disoccupazione oltre il 13% e conti pubblici a rischio; differente invece lo scenario più ottimistico in cui l’inflazione tornasse a salire, quindi una conferma che le azioni e le misure debbano avere carattere di urgenza.

L’accento del G20 è nuovamente posto sulla necessità di investimenti, concetto ancora ribadito e che in Italia sia il MEF sia Confindustria e Sindacati sia Bankitalia hanno già indicato come priorità indiscussa. Abbiamo però già scritto che per l’investimento serve un intervento pubblico sostanzioso ed un substrato economico in grado di attirare capitali privati che dovrà comprendere defiscalizzazione e minore costo del lavoro, minor burocrazia, più certezza e chiarezza normativa, giudiziaria e legislativa, possibilità di un business profittevole che vale a dire uno scenario di crescita e competitività; si torna dunque alla necessità di un sostanzioso e rapido pacchetto di riforme. Tra gli investimenti i 20 identificano prioritari quelli infrastrutturali, ed allora è evidente che il supporto pubblico è necessario e che quindi lato italia non sia compatibile con un rigido rispetto dei patti europei come il fiscal compact ed il rapporto defcit/PIL sic stante. Per gli investimenti vi è un piano del G20 per creare una grande banca dati dove investitori e progetti possano essere visibili l’uno l’altro in modo da far da luogo virtuale di contatto ed acceleratore.

Un altro punto interessante riguarda l’intenzione di ridurre elusione ed evasione fiscale da parte dei grandi colossi che riescono a non pagare tasse nei paesi dal fisco più alto servendosi di meccanismi di controllate e succursali in paesi a fisco agevolato, cosa peraltro spesso legale e che nell’ambito Europeo (e qui lo si è scritto fin dai primi articoli, ormai oltre 200 fa) non può prescindere da una armonizzazione normativa e fiscale ove le differenze tra i vari paesi vengono livellate e non sia più possibile lavorare in Italia ma fatturare in Lussemburgo, Olanda, UK o Irlanda che con il suo 12.5% di Corporate Tax ha fatto di questa caratteristica la base della sua ripresa e degli introiti per rientrare dal debito contratto con la Troika. Un meccanismo di scambio automatico di dati dovrebbe entrare in vigore sia tra i paesi del G20 sia tra i membri ed i non membri nel 2017/18.

Non è mancata poi l’occasione per puntualizzare il ruolo della BCE. Secondo il ministro del Tesoro Usa, Jack Lew, le politiche della Banca Centrale Europea, fino ad ora poco reattiva e lenta, così come quella del Giappone dovrebbero essere ancora più espansive e prendere spunto proprio dalla FED. Il Ministro tedesco Schauble ed il Governatore della Buba Weidmann hanno nuovamente ribadito che in tal modo si aumenta ulteriormente il rischio di una bolla monetaria e speculativa, già alto dopo le recenti misure della BCE, la via è solo ed esclusivamente il rigore dei conti e le riforme.

Da queste brevi analisi si percepisce già che gli intenti sono comuni, gli strumenti di alto livello anche, ma come utilizzarli e mischiarli ancora non è chiaro, non vi è un piano unico, totale e globale neppure tra i grandi della terra, nonostante si assuma l’urgenza come assioma fondamentale ed indiscutibile. Inoltre la Germania, dominatrice della scena europea e con la più grande influenza su Bruxelles-Strasburgo, non sembra aver intenzione di alleggerire le proprie posizioni.

In Italia il concetto di fretta ed urgenza si amplifica rispetto ad altrove, ma si amplificano anche gli impedimenti ad azioni rapide incisive e concrete, del resto lo si poteva intuire un poco prima che c’era da sbrigarsi, dati tipo quello diramato dalla CGIA di Mestre che fissa ad 80 miliardi i consumi persi dal 2007, 3’300€ a famiglia e 1’300€ a persona, non son quelli che maturano dalla sera alla mattina.

Prendiamo ad esempio il pagamento dei debiti arretrati delle PA: i soldi pare che siano stanziati, ma solo il 50% è arrivato a destinazione proprio perché tra stanziare ed elargire la differenza è abissale, determinante per una azienda, dopo lo stanziamento subentra altra burocrazia, enti, provice, regioni, comuni, aziende pubbliche ed ovviamente l’intermediario bancario. Nonostante l’impegno poi il nostro paese continua ad essere un cattivo pagatore infrangendo le regole europee con una media dei pagamenti di 160 giorni (fino a 700 in certe zone del sud) a fronte dei 30, che arrivano a 60 nell’ambito sanitario, concessi dalla UE.

Le riforme sul lavoro e la discussione sull’articolo 18 rischiano di rallentare un ambito in cui servono risultati immediati sacrificandoli sull’altare delle ideologie e delle bandiere sia un una parte che dall’altra.

Il decreto sblocca italia dovrebbe favorire investimenti, ma, come si vede nel caso della TAP che è uno dei maggiori progetti europei e per il quale potrebbero decidere di porre come punto ultimo di approdo l’Albania (l’Italia quindi perderebbe investimenti) se non si riescono a risolvere i problemi in Puglia,  la TAV ed in ogni altro progetto dalle energie rinnovabili ai corridoi di viabilità le opposizioni locali, di enti, di popolazioni di associazioni, di comuni, di aziende hanno la capacità di bloccare, come se la burocrazia non bastasse, ogni opera infrastrutturale. Proprio quelle opere prioritarie per il G20.

Il taglio del fisco e dell’Irap per le imprese (già avvenuto assieme al bonus 80€ nella misura del 10%) è una priorità manifestata da Padoan, che però deve fare i conti con i proventi della Spending review, copertura per la defiscalizzazione, lentissima che ha visto il cambio di vari commissari, nella quale i tagli sono osteggiati e discussi da realtà come sanità o regioni (ed ogni centro di potere tagliato avrà da recriminare aspramente) e che dovrà essere divisa con l’obiettivo di riduzione del debito.

In tutto ciò ricordiamo come i lavori parlamentari si siano impantanati a causa dell’incapacità di rinnovare i membri di CSM e Corte Costituzionale che riguardo ai due membri esponenti di PD e PDL ha necessitato invano di 14 votazioni nonostante il patto del Nazareno. Ricordiamo che vi sono centinaia di riforme approvate dai vecchi governi che sono in “coda” attendendo il decreto attuativo e che ad esempio un elemento indiscutibile per attrarre investimenti e cavallo di battaglia degli ultimi esecutivi, l’agenda digitale con il suo piano per la digitalizzazione, la banda larga e l’abbattimento del digitale divide, rimane un punto di domanda, o meglio un report in un cassetto..

Nonostante tutto in questo frangente la velocità non sembra di questo paese…. per la gioia dei centri di potere.

Link:
FMI taglia stime PIL; riforme nella giusta direzione ma da applicare in un Governo che non sembra così coeso
OCSE taglia stime di crescita, scenario fragile. Serve più flessibilità parallelamente al processo di riforme
Spending Review appesa ad una volontà politica latitante in Italia ed UE
Renzi, lontano dai salotti buoni, dovrebbe far attenzione e pensare ad un piano di risk management; nulla è per sempre
Dal CdM alle tensioni Russo – Ucraine con possibile risvolto energetico: complessità all’ordine del giorno
Draghi: parole “infraintendibili” per tutti, non per Schauble
Da Jackson Hole: politica monetaria, ma soprattutto lavoro, riforme e resilienza
Padoan: crescita molto lontana da quanto previsto. Indiscrezioni di un non facile tavolo segreto per vincoli europei più flessibili. Che questa volta sia quella buona.
Economia europea congelata, analisi, possibili soluzioni e rischi a valle dei dati di PIL Q2
Cinque analisi su alcuni fatti economico-politici salienti della settimana: 14/08/14
Eccola la deflazione… brevemente, c’è poco da dire, solo le due solite domande
L’Italia e le riforme: la lesson learnt spagnola ed il filo guida europeo che ci ricordano (Moody’s) di non perdere
La BCE si mostra attendista anche in emergenza ed offre, pungente, una ricetta ben nota
Non il Pil prevedibilmente basso, ma delle aspettative troppo alte. Cosa ci attende e cosa si deve fare in concreto?
Un difficile G20 per puntare alla resilienza

21/09/2014
Valentino Angeletti
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FMI taglia stime PIL; riforme nella giusta direzione ma da applicare in un Governo che non sembra così coeso

Negativa di 0.1 punti percentuali è la revisione della stima di crescita 2014 fatta dal Fondo Monetario Internazionale per l’Italia confermando così il terzo anno di recessione consecutivo. Il dato ha rivisto la previsione precedente di +0.3% indicata nel World Economic Outlook e segue i ribassi di OCSE e S&P di cui abbiamo già parlato (Link). L’FMI mantiene le stime 2015 e 2016 rispettivamente a 1.1% ed 1.3% con la postilla di poterle rivedere ad ottobre in conseguenza ad uno scenario macroeconomico definito per l’ennesima volta fragile, influenzato principalmente da:

  • Tensioni geopolitiche con al centro Russia, Libia e Medio Oriente.
  • Scenario deflattivo che minaccia ulteriormente una domanda interna già bassa.
  • Stagnazione, ben rappresentata da un debito in crescita tendente al 137%, rapporto deficit/PIL che l’FMI colloca al 3%, disoccupazione al 12.6% con quella giovanile oltre il 40% ed sud in condizioni ancora più problematiche.

A combattere la bassa inflazione dovrebbe contribuire la prima trance di T-LTRO della BCE, accolta con meno entusiasmo del previsto, probabilmente per via degli stress test europei. In Italia sono arrivati circa 22 miliardi che gli istituti finanziati dovranno convogliare ad imprese e famiglie rafforzando così la possibilità di credito, la cui domanda rimane ancora debole anche per l’impossibilità di ottenerlo. Tale misura è indispensabile che venga affiancata, come più volte ribadito e discusso all’Econofin (link1 – link2) ed in altri consessi (Link Ambrosetti), da una maggior diversificazione di accesso ai capitali con una varietà di strumenti di finanziamento da mini-bond a quotazioni facilitate in borsa. Da sottolineare come la disoccupazione fortifichi la stagnazione dei consumi e fomenti la conseguente spirale deflattiva. Ciò evidenza ulteriormente, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la necessità di creare le condizioni (burocratiche, economiche, di investimento e di business) per incrementare offerta di lavoro e l’occupazione.

L’FMI ha ripetuto pedissequamente quanto detto da tutti gli altri istituti, agenzie e leader economici e politici riguardo alle riforme di Renzi:

“Il piano di riforme è ambizioso va nella giusta direzione, deve però essere implementato. Si rimane in attesa dei risultati.”

In realtà medesima frase seguita da grandi attestati di stima è sempre stata riservata da queste realtà ad ogni nuovo governo, inizialmente da tutti ben gradito, ed ad ogni piano di riforma, quasi che il messaggio sia che per la situazione in essere non è più possibile andare avanti così; è necessario agire rapidamente, qualsiasi riforma sembrerebbe poter portare almeno un minimo beneficio e miglioramento.

L’FMI mette in guardia l’Italia su tre aspetti fondamentali che dovrebbero accompagnare la spending-rivew, la quale da sola potrebbe non essere in grado di correggere la deriva del debito ed al contempo assicurare una adeguata revisione del fisco. Si tratta delle pensioni, troppo costose (il 30% della spesa e le più costose d’Europa) su cui il fondo indica di intervenire anche per quelle attuali; della sanità e delle regioni ove le grandi differenze comprovano la possibilità di ingenti risparmi.

Anche la riforma del lavoro nella sua struttura generale è apprezzata dall’istituto di Washington che ribadisce la necessità di eliminare le enormi differenze tra lavoro stabile e precario, come ha detto il Premier la volontà è quella di eliminare lavoratori di serie A e di serie B. A tal fine l’idea di Renzi sarebbe quella di convergere verso un contratto unico a tutele crescenti che inizi con un contratto precario per poi trasformarsi in tempo indeterminato, anche se ad ora non è noto sapere in che tempi ed in che modalità. Questo aspetto non è da poco poiché nel periodo di transizione il lavoratore risulterebbe precario a tutti gli effetti, probabilmente quindi senza possibilità di accesso al credito e sostegno da parte delle banche, impossibilitato a fare piani di lungo termine. Tutto ciò rientra nel Jobs Act, che ha avuto il via libera dalla commissione lavoro. Nella riforma vi è anche il superamento dell’articolo 18, consentendo il licenziamento dei lavoratori dietro indennizzo economico. Come per il contratto unico, anche per l’indennizzo non si hanno dettagli né su modalità-ammontare né su tempi. Come ovvio l’articolo 18 è un argomento altamente divisivo che sta suscitando diatribe velenose e polemiche pesanti all’interno del PD a cominciare da Fassina, Damiano, Orfini, parzialmente Bersani ed ovviamente D’Alema. Nonostante tutto il Premier pare determinato ad andare avanti “come un mulo” e per ciò si è detto intenzionato, pur non menzionando mai l’arma del decreto, ad utilizzare tutti gli strumenti in suo possesso. Per il Nuovo Centro Destra invece questo superamento rappresenta una grande vittoria da esporre come trofeo, mentre i Sindacati, sul piede di guerra, hanno già indetto manifestazioni in varie forme.

Se proprio si deve analizzare quanto quel po’ che si conosce del Jobs Act va detto che a poter portare problemi più che l’articolo 18, molto simbolico, ma alla fine poco applicato nei contesti reali e già riformato 2 anni fa, tanto che alcune voci direbbero che la stessa OCSE ha mostrato perplessità di fronte ad una nuova modifica a così poca distanza quando ancora i reali effetti della precedente riforma non sono completamente chiari, sono l’articolo 4 ed il 13.

L’articolo 4 riguarda la concessione alle aziende di poter utilizzare  strumenti tecnologici per il controllo a distanza del lavoro e del lavoratore nel rispetto di dignità e riservatezza. Evidentemente il confine tra ciò che può essere consentito per un controllo di produttività e quello che si può trasformare in strumento di ricatto dovrà essere ben stabilito, oggettivo e non fraintendibile, altrimenti si rischia di trovarsi di fronte, soprattutto nelle prime fasi di implementazione, ad uno strumento parziale, fuori controllo ed altamente vessatorio.

L’articolo 13 è inerente alla possibilità di demansionamento del lavoratore con conseguente riduzione di stipendio. Inutile anche in tal caso sottolineare come la possibilità di utilizzi impropri e discriminanti sia facilmente realizzabile e vada scongiurata con norme chiare, specifiche e con controlli adeguati.

Infine va ricordato che la riforma sul lavoro verrà applicata solo ai nuovi contratti, quindi per un periodo decisamente lungo di tempo a partire dalla sua entrata in vigore vi saranno ancora tutti i vecchi contratti con le loro caratteristiche.

Detto ciò poi la necessità di configurare il lavoro in modo che sia flessibile, soprattutto per quel che riguarda la riqualificazione dei lavoratori e le possibilità di reimpiego a valle di mutate esigenze e scenari economico industriali perseguendo un sistema di formazione e di sostegno nel periodo di aggiornamento professionale simile ai paesi nordici, è ormai manifesta da tempo; sarebbe anacronistico continuare ad arroccarsi su posizioni contrarie.

Prima però di andare avanti sul Jobs Act, che verrà discusso durante l’incontro europeo sul lavoro l’8 ottobre a Milano, è intenzione del Premier assicurare le tutele  a coloro che hanno perso il posto, rinnovando quindi le varie forme di cassa integrazione impiegando le risorse necessarie a coprirli.

L’altro nodo che blocca i lavori parlamentari e problematico per il Governo è l’elezione dei componenti di CSM e Corte Costituzionale. Esso è tutt’altro che risolto e si appresta a giungere alla quattordicesima votazione, nonostante il ticket scaturito da Nazareno tra PD e FI che candida come rappresentanti Violante e Bruno. Sembra chiaro che le fazioni e le fronde siano potenti, in tale situazione addirittura più di PD ed FI assieme, ed abbiano portato a ben 13 insuccessi mostrando che su certi temi delicati, nonostante le intimazioni del Presidente della Repubblica, le scissioni proseguono. La prossima elezione è indetta per martedì e qualora si trasformasse in un nuovo nulla di fatto potrebbero essere candidati altri nomi.

C’è da chiedersi, e se lo chiedono anche FMI, OCSE, Bruxelles, BCE e via dicendo, come sia possibile per il Governo italiano, se non in grado di eleggere due giudice della consulta, affrontare efficacemente e rapidamente senza scadere in compromessi eccessivamente al ribasso, riforme molto più complesse, di valore anche simbolico e con impatto più concreto come appunto quella sul lavoro che già è motivo di dissidi, quella delle pensioni, della sanità e delle regioni (con i tagli di spesa conseguenti mai digeriti con facilità), dei diritti civili e della legge elettorale, l’Italicum, sui cui il premier sta accelerando forse, pur non dicendolo esplicitamente e continuando a vedere il 2018 come termine della legislatura, per prepararsi, perché come si dice gergalmente: non succede, ma se succede…

18/09/2014
Valentino Angeletti
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Pillole di news: Consulta, Ucraina, Scozia, Economia, PIL

Oggi ore 16 nuova tornata di voto per le elezione dei membri di CSM e soprattutto Corte Costituzionale. I candidati dell’accordo PD – PDL rimangono Violante e Bruno, ma pare che le fronde siano più fori avendo fino ad ora impedito di raggiungere il quorum di 3/5 (570 voti). Sorge la domanda: quanto in realtà è forte questo patto del Nazareno?

Unione Europea: Strasburgo ratifica a partire da gennaio 2016 l’associazione dell’Ucraina all’UE. La Rada, parlamento Ucraino, approva un disegno di legge per dare uno status speciale per tre anni ad alcuni distretti (inclusi Donetsk e Lugansk) concedendo maggiori autonomie per le minoranze. La Russia non vede bene l’accordo con l’Europa ed i separatisti non sono soddisfatti delle concessioni. Si prevede il perseverare delle tensioni e degli scontri che la diplomazia non ha saputo contenere.

Nelle prossime ore la Scozia andrà al voto per la sua separazione dalla Gran Bretagna. Domina l’indecisione tanto che per il poco scarto i sondaggi non sono attendibili. Il mondo politico-economico-finanziario è in allerta perché la separazione di Edimburgo non sarebbe indolore:
-) La Scozia, pur continuando a riconoscere la Regina, non potrà adottare né sterlina né Euro (alto rischio monetario che ha già indebolito la Sterlina).
-) La Scozia vale il 10% del PIL britannico e l’8% delle entrate fiscali.
-) Tutto il settore Oil&Gas, estrattivo, minerario, di cantieristica navale e militare britannico è collocato in Scozia.
-) In Scozia vi sono importanti basi militari strategiche, in particolare sottomarini nucleari nei mari scozzesi.
-) La divisione comporterebbe una fase in cui la Scozia non avrebbe esercito (l’UK non è disposta a condividere il proprio).
-) Molte compagnie soprattutto istituti assicurativi e finanziari scozzesi come la Royal Bank of Scotland e la storica Lloyd’s sarebbero già pronti a trasferirsi nella City assicurando il proprio contributo fiscale a Londra.

Dopo l’Ecofin è emersa una visione ancora divergente sulle nuove modalità di approccio e gestione della crisi tra UE e stati nazionali più in difficoltà.
(Approfondimenti:
Dall’Eco-Fi Pre-Ecofin ancora richiesta di rigore. Smentita della flessibilità entro i patti?
Dalla tre giorni economica milanese emergono ingredienti condivisi, ma la ricetta finale è ancora ignota ).

La stima di crescita del PIL 2014 italiana è stata ribassata da Morgan Stanley che l’ha portata a -0.2%; il Premier Renzi dalla Fiera del Levante ha ipotizzato crescita attorno allo zero, in seguito anche S&P ha attribuito all’Italia crescita nulla, l’OCSE l’ha ribassato a -0.4% (approfondimento: OCSE taglia stime di crescita, scenario fragile. Serve più flessibilità parallelamente al processo di riforme ) seguita a ruota dal Centro Studi Confindustria (sempre -0.4%, precedentemente anche Bankitalia aveva ritoccato la propria previsione); in ultimo il ministro Padoan ha definito molto probabile un 2014 a crescita negativa, ma una ripresa nel 2015 ed un risparmio di 5 miliardi dovuto alle inferiori spese sugli interessi sul debito grazie ad uno spread più basso delle attese (da considerare l’aspetto della deflazione vanifica parte di questo risultato). In ogni caso l’Italia si conferma il paese peggiore relativamente al PIL nel G7 e non può fuggire da un 2014 ancora in recessione e, considerando i dati e gli scenari macroeconomici attuali, un 2015 debole se non di probabile stagnazione .

16/09/2014
Valentino Angeletti
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OCSE taglia stime di crescita, scenario fragile. Serve più flessibilità parallelamente al processo di riforme.

oecdLe ultime, in ordine di tempo, organizzazioni o istituti ad aver praticato lo sport di abbassare le previsioni di crescita sono state nelle ore scorse la OECD (OCSE) e l’agenzia S&P.
Pur riscontrando una riduzione del PIL generalizzato in tutto il mondo occidentale, come al solito ad indossare la maglia nera tocca la nostro paese (per approfondimenti link a La Stampa).

Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa l’Italia chiuderà il 2014 a -0.4% rispetto ad una previsione di maggio che si attestava allo 0.5%, un calo importante di 0.9 pti percentuali che lascia aperto il solito quesito di quanto siano attendibili certe stime. Per il 2015 la previsione dell’OCSE scende a 0.1% dall’ 1.1% confermando una persistente stagnazione che per quest’anno è recessione tecnica.

A livello di Eurozona l’istituto Francese aggiorna la stima di crescita 2014 a 0.8% dal precedente 1.2% e per il 2015 a 1.1% dall’ 1.7% di maggio.

“Molto più ottimistica” la previsione di S&P che prevede il PIL italiano a crescita 0 per il 2014 rispetto al +0.5% di giugno .

Da sottolineare come le performance dell’ UK, tra le più positive nei paesi esaminati, possano pesantemente risentire dell’esito del referendum sulla separazione scozzese, decisamente in bilico, contro la quale si stanno impegnano numerosi importanti nomi e paesi a cominciare dalla Regina Madre e dagli USA. La Scozia vale circa il 10% del PIL Britannico, l’8% delle entrate fiscali, tutto il settore estrattivo del gas e del petrolio, l’industria pesante e la cantieristica navale. Rappresenta inoltre una base militare strategica in particolare per i sommergibili di Londra. Problematiche economiche potrebbero venire da eventuali ripercussioni sull’adozione di una differente moneta, visto che Londra non avrebbe intenzione di consentire il mantenimento della Sterlina, nonché dal trasferimento di importanti realtà industriali e soprattutto finanziarie da Edimburgo a Londra (RBS e Lloyd’s hanno già avanzato ipotesi di trasferimento nella City).

Sia l’OCSE che S&P, come del resto qualche giorno fa Morgan Stanley denunciano una condizione di fragilità e debolezza dell’Eurozona.

Lo stato incerto era ben noto già da tempo, e si è acuito ulteriormente a causa delle tensioni internazionali in Medio Oriente ed in Russia ove le sanzioni imposte non hanno giovano di certo all’economia del vecchio continente gettando ulteriore incertezze a causa della forte dipendenza di energia primaria da terre instabili e teatro di conflitti come appunto Russia, Libia, Medio Oriente, ma anche alcune zone dell’Africa.

L’OCSE afferma chiaramente che in uno scenario simile a livello europeo occorre utilizzare tutta la flessibilità possibile indirizzandola verso la crescita ed al contempo è necessario uno sforzo per portare avanti un ambizioso processo di riforme.

Inutile stare a ripetere quanto già detto in questa sede migliaia di volte, chi ha avuto costanza ed interesse a seguire lo avrà sicuramente letto.

Se ad inizio crisi, quindi ormai 3 anni fa (anche se si potrebbero includere pure gli anni dal 2007 dopo la crisi dei mutui subprime), era possibile sostenere la tesi secondo cui, almeno in Italia, si sarebbero dovute fare le riforme e con i risultati tangibili di queste andare in Europa ed avanzare richieste di allentamento dei vincoli mostrando l’impegno, la determinazione e soprattutto i risultati ottenuti, a questo stadio avanzato e con un ritardo di risposta agli eventi cronico e quasi incomprensibile, ciò non è più possibile.
Le riforme necessitano tempo per entrare a regime in particolare quando si agisce su lavoro e burocrazia, ed ora questo tempo non c’è, non è concesso.
L’Europa dunque se deve dar credito all’Italia o a chicchessia, lo deve fare subito altrimenti quel credito è destinato ad essere inefficace, come, a causa delle lentezze e del perseverare in vecchi schemi di totale austerità, lo è stato l’approccio fino ad ora utilizzato per gestire la crisi a cominciare da Grecia, Cirpo e gli altri a seguire.

I dati OCSE possono essere interpretati contro l’operato degli esecutivi italiani come fanno i detrattori di Renzi, oppure a sostegno del concetto secondo cui parallelamente al processo di riforme serve un supporto esterno di UE e BCE che abbandoni, almeno in recessione il principio di austerità ed applichi un nuovo approccio economico.
L’Italia dal canto suo per mostrare le miglior intenzioni potrebbe proporre un controllo più stringente proprio da parte della Commissione UE sul processo riformatore.

15/09/2014
Valentino Angeletti
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Dalla tre giorni economica milanese emergono ingredienti condivisi, ma la ricetta finale è ancora ignota

Dalla tre giorni di vertici europei “informali” EcoFi, EuroGruppo ed EcoFin poche novità e pochi spunti sono emersi rispetto a quanto già non si sapesse e fosse consolidato nella discussione economica continentale.

I punti cardine di cui tanto si è scritto sia qui nelle settimane e nei mesi addietro, sia sulla stampa sono stati le riforme strutturali economiche ed istituzionali che devono affrontare i singoli paesi con varie priorità, gli investimenti in calo a livello europeo che vanno supportati e vincolati e la politica monetaria. Tutti e tre gli elementi fanno parte della strategia volta alla crescita ed al sostegno all’occupazione all’interno di tutta l’UE che sono tra l’altro le priorità dichiarate dal Premier Renzi per il semestre Italiano ormai iniziato da 75 giorni.

Gli ingredienti sono in linea di massima assodati e condivisi tra i vari protagonisti, quindi stati nazionali inclusa l’Italia, Unione Europea e BCE, ad essere differenti invece sono le visioni di insieme e la consecutio di implementazione.

I lavori si sono infatti aperti con l’ennesimo battibecco tra Governo e Commissione uscente con un botta e risposta tra Roma dove si trovava il Premier Renzi e Milano dove erano presenti i rappresentati economici dell’Unione. La scintilla è stata la dichiarazione del commissario uscente ad interim  per l’economia e gli affari monetari Katainen (e venturo VP) secondo cui le riforme in Italia non vanno solo annunciate, ma attuate altrimenti sarebbe come comprare delle medicine senza prenderle: inefficaci. Evidentemente la fiducia del futuro potente VP nei confronti dell’Italia non è massima e considerando il recente passato non lo si può completamente biasimare. Il finlandese ha poi lasciato trasparire un po’ di superficialità asserendo che il programma di riforme italiano è ambizioso, va nella giusta direzione e sicuramente porterà i frutti aspettati una volta applicato, aggiungendo però di non conoscerlo nei dettagli; forse prima di gettarsi in certe dichiarazioni avrebbe potuto documentarsi o tralasciare l’ultima locuzione. Il concetto di Katainen, condiviso anche dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem, è che prima di ogni altro intervento europeo si debba attendere l’applicazione ed il risultato misurabile delle riforme, fino ad allora vigono i patti ed i vincoli europei attualmente in essere, sottoscritti dai 28 e mai modificati o resi più flessibili. Quindi prima riforme e presentazione chiara di precise strategie di investimento e destinazione di eventuali fondi e solo dopo concessioni o piani di incentivazione.

A Katainen ha risposto a più riprese Renzi, immediatamente via Twitter e successivamente dalla Fiera del Levante in Puglia. Il Premier ha risposto a tono dicendo che non si prendono lezioni da nessuno e che meritiamo rispetto e credito essendo uno dei pochi paesi a rispettare il 3% (che a dire la verità dovrebbe essere secondo i patti in essere il 2.6% per il 2014) nel rapporto Deficit/PIL, aggiungendo che continueremo a rispettare i patti, il 3%, proseguiremo nelle riforme non per l’Europa ma per andare incontro alle necessità dei cittadini per la prima volta tifosi del governo, e che l’Europa e Juncker dovrebbero pensare a rendere disponibili i 300 miliardi di investimenti paventati.

Katainen ha finemente replicato che l’Europa non è maestra di nessuno né bacchetta alcun paese, ma cerca il confronto con i singoli stati affinché venga mantenuto il rigore di bilancio, vengano implementati i piani e non si venga meno alle regole sottoscritte. Ha poi aggiunto che la situazione italiana nello specifico non è stata ancora valutata e che vige ancora nella sua totalità ciò che il patto di stabilità contiene.

A far da mediatore tra i due leader è il Ministro dell’Economia Padoan (stima sempre maggiore per questo tecnico), con un piede nella calzatura di Renzi e l’altro in quella di Katainen, ribadendo che le riforme nel nostro paese non hanno scadenze, ma carattere di urgenza estrema e che la crescita di lungo periodo potrà avvenire solo dopo la ripresa di un ammontare adeguato di investimenti pubblici ed in particolare privati (in un paese come l’Italia senza sostegno esterno pensare a grossi piani di investimento pubblico è complesso visto lo stato dei conti pubblici e l’allocazione di una spending review ancora in fieri nella riduzione del debito e defiscalizzazione). A tal fine il solo credito bancario, che ha fallito in passato, non è sufficiente e, come scritto più volte in questa sede, è necessaria una diversificazione per la quale il Ministro ha chiesto supporto a BEI e Commissione che dovranno redigere consigli su dove e come agire considerando ipotesi quali Minibond alle imprese (ed aggiungiamo anche quotazioni in borsa facilitate, EuroBond di concerto con la BCE, intervento diretto di BEI ed entità come CdP, ecc). Pur con questi strumenti, ancora teorici, più orientai alla finanza e credito rimane però il punto tanto dirimente quanto ovvio che un privato si accolla l’onere ed il rischio di un investimento solo se esiste la possibilità concreta di profitto, e se il terreno su cui si va ad investire è stabile e non scosceso; questo stato evidentemente si può raggiungere solo con un profondo piano di riforme alla struttura fiscale, burocratica e normativa italiana.

A ciò si aggiunge la posizione ben nota della BCE, di Draghi e del suo VP Victor Constancio che ribadiscono (correttamente) che l’operato della BCE non può prescindere da un contesto di ampie riforme a sostegno della crescita e che la sola politica monetaria non può portare a cambiamenti economici strutturali. L’impegno della BCE è confermato secondo Constancio con la partenza la prossima settimana delle misure di T-LTRO, per il resto l’istituto di Francoforte ritiene di aver fatto la propria parte e che a rivitalizzar un’economia che in complesso e nelle sue componenti nazionali vede ancora dati di PIL peggiori rispetto al 2008 spetta agli stessi stati.
Come spesso ribadito in realtà la BCE avrebbe potuto agire sicuramente prima ed in modo più mirato anche perché i dati di inflazione e la stabilità della moneta e dei prezzi, elementi del mandato della banca centrale, forse potevano essere protetti con più forza e con maggior tempismo visto che segnali chiari non mancavano già anni fa. Non la pensa così la BuBa di Weidmann secondo cui la politica della BCE, espansiva addirittura oltremodo, rischia di minare il percorso di risanamento dei conti, evidentemente priorità assoluta per l’istituto centrale tedesco.

Leggendo le elucubrazioni di Katainen, Renzi e Padoan vi sono alcuni elementi che mettono in dubbio l’efficacia di azioni impostate secondo quanto detto.
Katainen vorrebbe prima attendere l’attuazione delle riforme, che in un contesto italiano sono lentissime, richiedono varie letture e votazioni, ed addirittura poterne misurare i risultati prima di avanzare ipotesi di concessioni ed allentamenti, ben conoscendo la pastosità del sistema italiano. Vorrebbe poi che a fronte dell’erogazione di incentivi ed investimenti fossero presentati piani precisi e dettagliati, richiesti ed ancora non pervenuti anche per la spending review sui cui l’UE conta molto come elemento di abbattimento del debito e riduzione del carico fiscale assieme alle privatizzazioni. Un approccio simile è ovviamente condiviso in toto dalla Germania, con Schauble in prima fila, essendo già ben indirizzati in tema di riforme con l’impegno di sostenere il mercato interno e ridurre il surplus. La Germania potrebbe quindi (ma è solo una ipotesi) beneficare per prima di ogni tipo di investimento europeo.
Il Premier Renzi invece vorrebbe che allentamenti dei vincoli, investimenti e fondi venissero fatti immediatamente, forti del nostro rispetto del 3% (che al 2014 dovrebbe essere 2.6%) contrariamente ad altri paesi come la Francia (che però ha un debito attorno al 90% e dati su occupazione ed inflazione migliori dei nostri). Evidentemente, se credito e concessioni vorranno essere dati al nostro paese, non ha senso attendere perché di tempo non ve n’è.
Infine Padoan il quale sa bene dell’urgenza delle riforme e della loro attuazione, ma al contempo è consapevole che gli investimenti devono riprendere subitamente. A tal pro in modo molto diplomatico il Ministro ha tirato in ballo un piano a supporto di investimenti, chiaramente parte del meccanismo complessivo di azioni da implementare, da produrre congiuntamente e rapidamente da BEI e Commissione. Inoltre ha allentato ulteriormente la tensione definendo il controllo europeo (che considerando la cessione di sovranità che dovrà avvenire sarà sempre maggiore) un utile strumento di confronto tra stati e di miglioramento.
Anche in tal caso però il rischio di ritardi è altissimo perché la Commissione, che dovrà lavorare sul programma a sostegno degli investimenti nonché sul piano di investimenti stesso (probabilmente anche quello da 300 mld di Juncker), è la nuova che si insedierà solo da Novembre ed avrà bisogno di un po’ di tempo per rodarsi andando così a sfiorare la conclusione del nostro semestre di presidenza che attualmente ben meno del previsto, complice le elezioni ed il riassetto europeo, ha potuto indirizzare l’agenda UE impegnata su questioni più squisitamente di governance che non pratiche.

A corollario di ciò vi è la dichiarazione più che pragmatica di Visco, Governatore di Bankitalia, che riporta tutti con i piedi per terra dicendo che da queste riunioni, le quali di fatto non hanno aggiunto nulla di nuovo o utile alla soluzione della crisi, l’Italia esce con i soliti problemi.
I soliti appunto: debito, disoccupazione, deflazione, pil, imprese in difficoltà, basso potere d’acquisto, basso credito, investimenti azzerati ed altissimo carico fiscale assieme a tutti gli intoppi burocratici e le questioni politiche, che vedono con il voto per la Consulta, un patto del Nazareno in bilico e con la vicende in Emilia-Romagna divergenze interne al PD.

A tirare la stoccate al Governo sono poi anche i sindacati che manifesteranno ad ottobre. Il più duro di questa tornata è stato Bonanni della CISL che ha tuonato contro i “palloni gonfiati che promettono riforme sul lavoro senza poi fare nulla, come accade da 5 governi a questa parte”. Il riferimento e la rottura con l’Esecutivo sembra abbastanza immediato anche se non sono stati fatti esplicitamente nomi.

Pare quindi che gli ingredienti da portare in cucina siano condivisi dai vari cuochi, chef e garzoni, ma manchi la ricetta in cui impiegarli.
L’impressione è che più o meno si abbia un’idea abbastanza chiara di quali siano gli strumenti da usare, ma non vi sia assolutamente un piano complessivo ed una sequenza di attuazione, anzi ogni leader ha una propria idea ed è abbastanza fermo sulla propria posizione, poco disposto a cedere in totale contrasto con lo spirito comunitario di condivisione ed aiuto reciproco.
Ciò, unitamente al processo di insediamento della nuova Commissione, rischia di richiedere ancora troppo tempo in cui indubbiamente, almeno per il nostro paese, i dati già pessimi peggioreranno e le tensioni politiche si acuiranno ulteriormente.
Insomma, l’UE è ancora ben lungi da quella sinergia che mai come ora è indispensabile.

Link:
Dall’Eco-Fi Pre-Ecofin ancora richiesta di rigore. Smentita della flessibilità entro i patti? 12/09/14
Un po’ di “Cencelli” nella nuova Commissione Europea che dovrebbe essere decisa e rapida 11/09/14
Spending Review appesa ad una volontà politica latitante in Italia ed UE 09/09/14
Renzi, lontano dai salotti buoni, dovrebbe far attenzione e pensare ad un piano di risk management; nulla è per sempre 06/09/14
Dal CdM alle tensioni Russo – Ucraine con possibile risvolto energetico: complessità all’ordine del giorno 28/08/14
Draghi: parole “infraintendibili” per tutti, non per Schauble 28/08/14
La crisi di governo francese ha rotto il fronte anti austerità? Problemi in vista? 26/08/14

 

13/09/2014
Valentino Angeletti
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Twitter: @Angeletti_Vale

Dall’Eco-Fi Pre-Ecofin ancora richiesta di rigore. Smentita della flessibilità entro i patti?

Ormai all’indomani della definizione della nuova commissione Europea (approfondimento CommEU: Link) sono in procinto di svolgersi a Milano le riunioni di Eurogruppo ed Ecofin, precedute dall’incontro informale dei Ministri dell’Economia Eco-Fi.

Per l’Italia che da presidente di turno ospita gli eventi, la due giorni è aperta da una nuova trance di dati non rassicuranti sullo stato economico del paese. Dopo il -0.2% di crescita registrato nel Q2 2014 (Link), Morgan Stanley ha rivisto al ribasso la crescita per l’intero 2014 proprio a -0.2%, dato confermato dal Premier che ha collocato la crescita attorno allo 0% decimale più decimale meno. I Sindacati hanno certificato una diminuzione dei posti di lavoro in edilizia in 7 anni di ben il 50%, mentre la Commissione Europea ha registrato un ribasso del settore industriale italiano del 24.5% dal 2007. Lo spread, pur lontano dai devastanti valori del 2011/12 è tornato a salire oltre i 140 pti base, la ricchezza ed il potere d’acquisto degli italiani sono tornati indietro di 30 anni, in barba al concetto di prosperità e benessere alla base della nascita dell’Unione Europea, in ultimo l’ISTAT ha registrato un calo della produzione industriale di luglio dell’ 1% rispetto a giugno e dello 0.8% rispetto al trimestre precedente (Q3 vs Q2).

Dalla BCE, nonché dall’Europa stessa, proviene poi un monito allarmante, non solo per il contenuto, il quale non è nuovo a molti altri del passato, ma per quello che lascia presagire in merito alla volontà di mutamento della govenrance economica dell’area Euro. All’Italia, che è definita ancora troppo indietro nel processo riformatore, è intimato di proseguire con la massima urgenza nella disciplina di bilancio per arrivare al rispetto dei patti e dei vincoli europei (il fiscal compact). Tali vincoli riguardano in prima istanza il tasso di riduzione del debito, in continua crescita e proiettato al 137%, e il rapporto deficit/pil. Quest’ultimo rapporto sappiamo avere un paletto, al momento non negoziabile ma che necessariamente andrà rivisto o nei tempi e nell’applicazione della golden rule sugli investimenti produttivi, del 3%. Quando tempo addietro si parlava di flessibilità entro i patti, concetto invero accettato anche dai falchi nordici più rigoristi, si intendeva proprio la possibilità di arrivare, senza sforare, al 3% e questo era di fatto l’obiettivo dichiarato del nostro governo. La concessione comunque insufficiente, avrebbe consentito di liberare circa 6-7 miliardi di € per investimenti produttivi. Il Governo Renzi ed il Ministro Padoan, ribadendolo a più riprese, erano decisi e lo sono ancora, a non sforare il 3% ma andarlo a sfiorare per reperire quante più risorse possibili, indispensabili in una fase recessiva come quella in corso. Adesso il limite ribadito da BCE ed UE è tornato al 2.6%, smentendo la locuzione “flessibilità pur nel rispetto dei patti” (rimanendo invariato il vincolo del 2.6% non esisterebbe flessibilità, ma sarebbe solo un rispetto dei patti iniziali siglati a scenari ben diversi). Questo ritorno con fermezza la rigore ed al rispetto dei trattati (ci si immagina che ugual fermezza sarà applicata anche per il fiscal compact riguardante il rientro del debito/pil -Ridurre il debito è possinile?- che deve scendere a partire dal prossimo anno in 20 anni al 60%, e ciò, con un pil stagnante è sostanzialmente impossibile), lascia molti dubbi sulla reale inclinazione ad attuare un differente approccio economico, ultima spiaggia, riprendendo le parole di Juncker, affinchè l’Europa possa avere qualche speranza di risalire la china.

Il Ministro Padoan stesso ha risposto, nascondendo a fatica un po’ di amarezza, che quel paramento del 2.6% era riferito ad uno scenario economico europeo migliore, quando invece le condizioni si sono verificate oggettivamente più negative del previsto ed il fatto che tutta l’Europa stia fronteggiando situazioni problematiche è il segno evidente della necessità di discontinuità e cambiamento.

Si fa inoltre notare che se il dubbio sul rapporto deficit/pil al 2.6% permane nonostante l’adeguamento Eurostat sul calcolo del PIL che dovrebbe portare al rapporto in questione un beneficio dello 0.2%, significa che all’atto pratico non è stato rispettato, con le regole vigenti fino a qualche giorno fa, il 2.8%; analogamente, ipotesi tutt’altro che accantonata da BCE ed EU, se non si riuscisse a rispettare il 3% vorrebbe dire che effettivamente saremmo sopra il 3.2%.

Draghi, oltre alla nota sui conti italiani, ha ribadito la necessità europea di attrarre investimenti, che l’Italia non riesce ad attirare come potrebbe e dovrebbe. Giustamente, come qui più volte scritto, il Governatore ha sottolineato anche la necessità delle riforme, poiché ogni politica monetaria non può portare crescita e benefici strutturali di lungo periodo se non inserita in uno scenario di riforme volte a supportare l’economia. I piani su cui agire dovrebbero essere per l’intera Europa quello del regolatorio e quello della concessione di credito. Draghi riporta poi per il nostro paese l’esempio della Spagna, che come scritto (Lesson learnt spagnola, ma solo per le riforme), è possibile prendere limitatamente alla capacità attuativa delle riforme, ma non sotto altri aspetti che vedono lo stato iberico in condizioni non migliori dell’Italia, ad iniziare dall’occupazione.

Ormai è chiaro che un sistema creditizio basato quasi in toto sulle banche che mischiano finanza ed economia, non è in grado di fornire la giusta liquidità e nei giusti tempi all’economia ed alla produzione, è altresì necessaria una maggior diversificazione e differenti strumenti, tra cui certamente quelli che verranno messi in campo dalla BCE come TLTRO, ABS, eventualmente acquisto di debito sovrano, ma anche l’utilizzo di vincoli finanziari come Bankitalia, CDP, BEI, Mini-Bond, quotazioni in borsa facilitate ed incentivate, venture capital, tutti capaci di dare spinta in minor tempo. La diversificazione degli strumenti creditizi è fondamentale sia per una maggior gestione del rischio di crisi cicliche qualora il meccanismo erogante entrasse in difficoltà (esempio crisi dei mutui subprime oppure classico schema di prestiti e mutui), sia per andare incontro ad esigenze di tipologie di credito che la moderna economia presenta in mutate e plurime forme rispetto al passato, non più dunque solo ed esclusivamente puro e semplice cash.

La ripresa di concessione di credito potrebbe valere secondo il Governatore di Bankitalia Visco fino a 0.5% di PIL, un valore decisamente ottimistico, ma è appurato che la sua assenza non consente all’industria alcun tipo di investimento.

Dall’Europa, e per bocca del Commissario all’industria Nelli Feroci, vengono critiche al Governo Renzi sull’uso indiscriminato e non gradito a Bruxelles, del decreto legge senza una valutazione approfondita e chiara del suo impatto. Ad esempio sul tema del lavoro la ricerca della flessibilità, senz’altro utile, ha lasciato scoperto l’altrettanto importante aspetto dell’eccessiva rigidità dei salari, della giustizia (tema che con il processo telematico ha fatto passi avanti), dell’aspetto normativo e legislativo ermetico, ballerino, incomprensibile, dipendente da una pluralità di centri burocratici che spaventa letteralmente gli investitori, e di una fiscalità opprimente. Ciò è riportato nel paper europeo “Reindustrializzare l’Europa – rapporto competitività 2014”.

Il contesto necessita, e lo si ripete da tempo, di decisione risolute e rapide, tanto che il rischio di essere già irrecuperabilmente in ritardo è altissimo. Non vi sarà una rapida ripresa sia per lo scenario deflattivo in essere sia per il livello di disoccupazione raggiunto sia per le tensioni in politica estera che includono le sanzioni economiche alla Russia che hanno importanti ripercussioni su un gran numero di settori industriali di molti stati europei a cominciare da quello energetico, con le ritorsioni russe che parrebbe siano già in attuazione intermittente ai danni di Polonia, Slovenia ed Austria. Di ciò deve curarsi la nuova Commissione Europea cercando di lavorare in modo unitario, sinergico e sincronizzato, lasciando da parte i particolarismi ed i nazionalismi, puntando ad un nuovo approccio, quello probabilmente auspicato da Padoan, che sia resiliente e volto al perseguimento della prosperità, benessere, pace e protezione. Obiettivo non semplice se si guarda la conformazione della nuova commissione, eterogenea e con presenze che hanno mostrato nelle loro recenti parole connotazioni eccessivamente rigoriste e conservatrici, a cominciare da Katainen (per approfondimenti su commissione si rimanda al link1 – link-Katainen). Come già scritto il rischio è che non si giunga nei tempi necessari ad accordi che siano risolutivi e che il ritardo ed il compromesso continuino ad essere protagonisti indesiderati.

Scendendo a livello italiano lo scenario rischia di essere anche peggiore. In parte la colpa va attribuita ai centri di potere, alle tecnocrazie e burocrazie bloccanti, spesso con potere decisionale e di veto che tendono alla conservazione ed alla sopravvivenza ed in parte alle le tensioni che disperdono energie dagli obiettivi di crescita, lavoro, riforme. Esse sono molte e si notano internamente ai vari partiti (caso PD in Emilia Romagna, ma anche all’interno di FI la leadership di Berlusconi comincia ad essere velatamente messa in discussione), si notano quando arrivano i nodi di alcune riforme come quella del lavoro e dell’articolo 18, sono insite nella spending review che dovrebbe tagliare gli sprechi tra gli altri alle regioni ed alla sanità, ma evidentemente ogni centro di potere ritiene di essere efficiente e di non dover essere oggetto di tagli, si notano infine nelle votazioni per la Consulta e CSM giunta ormai alla nona tornata e che ha visto, se vogliamo clamorosamente, fallire il patto del Nazareno secondo cui avrebbero dovuto essere eletti Catricalà e Violante. Benché PD e FI assieme abbaino la maggioranza assoluta non sono riusciti a far valere il loro accordo e la conseguente squadra di magistrati, testimoniando come certi agglomerati tecnocratici e burocratici superino in forza gli stessi partiti, rendendo impossibile, talvolta giustamente e talvolta a torto, innovazioni o cambiamenti a loro non favorevoli. Se questo fatto si moltiplica per ogni decisione, riforma, processo e per ogni centro di potere esistente e per il numero di votazioni che la legislazione prevede prima di sancire l’entrata in attuazione di una riforma è ben chiaro che non è affatto possibile pensare di essere sufficientemente rapidi ed incisivi nelle azioni di governo. Fa pensare la nuova linea del Premier di velocizzare l’iter per concludere la legge elettorale “Italicum” dandole priorità rispetto alla riforma delle PA, sembrerebbe una presa d’atto che in una simile viscosità non sia possibile imprimere quell’accelerazione reclamata a gran tono da più voci a partire dal 2011. Forse si tratta davvero del primo passo verso un rischio importante, un ALL-IN per provare ad arrivare ad un adeguato livello di rapidità ed incisività  (Renzi, lontano dai salotti buoni, dovrebbe far attenzione e pensare ad un piano di risk management; nulla è per sempre 06/09/14) finora non sufficienti.

12/09/2014
Valentino Angeletti
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